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domenica 29 gennaio 2012

Il leopardo - Jo Nesbø




(Panserhjerte - 2009)

"Il bosco era fitto, le ombre guizzavano qua e là come lupi silenziosi, e anche quando si fermava ad ascoltare e a guardare, le ombre degli alberi cadevano su altri alberi ed altri alberi ancora, impedendole di distinguerne i contorni, come in un labirinto di specchi."

Premetto: 759 pagine. Preferisco libri sottili, li trovo più intensi e meglio assimilabili. Tuttavia, questo poderoso thriller non dà tregua; la scena del crimine si sposta disinvoltamente da Oslo a Hong Kong, al Congo, passando per Sidney; i personaggi principali sono decine, i corollari centinaia. Ho dovuto ripristinare un vecchio trucco: scrivere sul segnalibro i nomi (spesso da sillabare) e le loro sommarie caratteristiche. Eppure mi è piaciuto placare l'ansia da trama crudele con l'immersione in panorami innevati, boschi silenziosi, rifugi solitari.



...Al chiaro di luna poteva vedere la scultura della donna sui trampoli nell'acqua e il ponte deserto....
"L'uomo di neve" Jo Nesbo - Oslo

Trappola per topi - Agatha Christie


(The Mousetrap - 1952)

"Three blind mice,
Three blind mice
See how they run,
See how they run!

They all ran after
The farmer's wife
She cut off their tails
With a carving knife
Did you ever see
Such a sight in your life
As three blind mice?"

Una filastrocca crudele, per una storia di successo e teatralmente arcinota. Rimane comunque un giallo classico, con una trama appassionante e personaggi tipicamente british: la signora Boyle, il maggiore Metcalf, il sergente Trotter,  che sa una cosa sola: l'assassino è accanto...   


Torbay-Torquay - Agatha Christie

lunedì 23 gennaio 2012

La strada per Los Angeles - John Fante



(The Road to Los Angeles - 1933)

"Mi sentivo come una frenesia: un delirio d'impossibile felicità. Quell'odore di mare, la dolcezza pulita e salata dell'aria, la fredda, cinica indifferenza delle stelle, l'intimità di quelle strade che all'improvviso si riempivano di risate, l'opulenza sfacciata della luce nell'oscurità, il languido bagliore di quella falce di luna crescente: amavo tutto questo."

Prima apparizione di Bandini, sfacciato avventuriero megalomane e davvero indimenticabile. Astuto, bugiardo, un po' italiano, un po' americano, sedicente scrittore, ma  con in tasca soluzioni pratiche, arrogante, prepotente, e irresistibile. Guarda avanti e tira dritto..... Una leggenda. 

Il pescatore di favole - Antonio Montefusco

Oggi, 30 dicembre 2012, aggiungo  il secondo volume pubblicato da Antonio Montefusco. Sarebbe un bene leggere entrambi i libri intitolati Il Pescatore di Favole (Poesie e Racconti) perché si integrano come fluidi pensieri annotati da qualche parte, e poi trasferiti intatti, mantenendo così una immediatezza  ed una sincerità veramente singolari. Antonio è amaro, non si concede nulla, interpreta ciò che lo circonda quasi con cinismo: e poi, inaspettata come una fucilata, spunta l'emozione del ricordo di Sic, che tutti condivideranno essendo un personaggio universale. O l'emozione del ricordo di Mario, che pochi capiranno, tranne noi che lo abbiamo conosciuto veramente, ma non importa, perché tutti abbiamo un Mario da qualche parte nel cuore. Bravo Antonio! Hai ancora mille cose da raccontare!


DIALOGO

E' un giorno in cui parlo alla vita. Mi racconta di sé, mi parla di questo giorno così importante, di come ogni anno sia un giorno diverso da un numero che è sempre uguale. Per alcuni è un giorno qualunque, per altri è il giorno dei giorni, come ci suggerisce una canzone. Mi racconta di sé, delle aspettative, dei tanti propositi che si sprecano sotto ad un abete illuminato. Parla come quest'oggi, scambiamoci opinioni, scambiamoci piccole stille di vita. E' un giorno che non si lamenta. E' un evento che attende le parole e i propositi migliori. E' una tradizione che cambia ma viene tramandata di generazione in generazione. Per alcuni questo sarà il primo Natale, per altri sarà un po' come gli altri, per alcuni un giorno di diversità. Parla con me, fallo schiettamente, sussurrami le note, dimmi che ci sarai. Dialoga, dimmi che mi guarderai dall'alto senza pretese. Raccontami di te, di noi, di loro, raccomandami prima dell'ultimo viaggio, suggeriscimi la vita, suggeriscimi quel che rimane di questo cammino. Sulla mappa che gira tra le mani, cerco un dialogo che mi rimanga dentro e mi apra nuovi orizzonti. Mi racconta di sé, le aspettative sono in sala d'attesa vicino ad un posacenere ancora vuoto, ma ingrigito da chi l'ha abitato precedentemente.



VOLTI  VUOTI
Parole da vedere,
volti scuri
uccisi
dall'essere
bigotti,
gli estremi
di una vita,
gli estremi
di un conto
da saldare
le amare
passioni,
la riconoscenza
non c'è.
Parole da vedere
da vendere
da soppesare.
Vuoti istanti,
le magie
non fanno miracoli.
Crocifissi.

Avrei potuto sceglierne altre venti, ma ho preferito questa semplice, terribile, immediata fotografia. Forse presa sotto i portici, forse rubata ad una strada qualunque piena di gente qualunque che va chissà dove. Forse in chiesa, così per abitudine. Forse incontro ad una vecchiaia deserta. Ognuno da solo, ognuno prigioniero di mura invisibili, ognuno solo con se stesso. Grande libro, grande, piacevolissima sorpresa.

giovedì 19 gennaio 2012

25 racconti del terrore - presentati da Alfred Hitchcock


( Stories they wouldn't let me do on TV - 1957)


Ma a questo punto sarà bene che io faccia una bella dissolvenza, mentre voi scegliete da quale racconto cominciare a leggere. Buona notte e buona caccia. Alfred Hitchcock



L'immagine rende giustizia al furibondo passamano subito da questo libro perfetto; per quanto ricordo dal 1971 è stato rubato almeno dieci volte, per tornare infine nelle mie grinfie e restarci per sempre. Da allora è stato letto da tutti in casa mia, e trasversalmente celebrato. I racconti (copio da un foglio staccato, tanto per rendere l'idea del logorio) sono questi:

Dal momento che sono un assassino - Arthur Williams
Lukundu - Edward Lucas White
Una donna rara - William Sansom (e qui mi difendo spegnendo la luce)
La perfezionista - Margaret St. Clair
Quanto costa una testa - John Russell
La signorina Lucy si innamora - Q. Patrick
Sredni Vashtar - Saki H.H. Munro (e qui mi difendo adorandolo anch'io)
Gronda di sangue Amore - Philip MacDonald
Il ballerino - Jerome K. Jerome
L'incantesimo dei runi - M.R. James
Una voce nella notte - William Hope Hodgson (e qui giro al largo)
Come venne l'amore per il professo Guildea - Robert S. Hichens
Il momento della decisione - Stanley Ellin
Un laureato nella giungla - James Francis Dwyer (e vedo Orangutan dovunque)
Ricetta per omicidio - C.P. Donnel jr
Nunc dimittis - Roald Dhal
La selvaggina più pericolosa - Richard Connell (caccia veramente grossa)
La signora sul cavallo grigio - John Collier (Terrificante con la maiuscola)
La statua di cera - Alfred McLelland Burrage
La moglie mite - Thomas Burke (sconsigliato ai sensibili)
La "cosa" alla porta - D.K. Broster
Giuoco d'ottobre - Ray Bradbury (strafamoso per cui taccio)
In riva al lago - Robert Bloch
Il mattacchione - Robert Arthur
L'abisso - Leonid Andreev (e qui chapeau)

Ogni racconto meriterebbe un'icona. L'insieme è semplicemente magnifico. Intanto metto questo:


LEONID ANDREEV
L'ABISSO

I
Il giorno stava per finire e i due giovani continuavano a camminare e a parlare senza accorgersi del tempo e della strada. Davanti a loro, su una collina scoscesa, nereggiava un boschetto e, attraverso i rami degli alberi, fiammeggiava il sole come un carbone rosso e ardente e accendeva l'aria rendendola tutta un pulviscolo d'oro e di porpora. Il sole era così vicino e così luminoso che ogni cosa intorno pareva scomparire, ed esso solo rimaneva a tingere e a levigare la strada. I due furono come accecati, si volsero, e di colpo tutto si spense davanti a loro, si fece quieto e chiaro, piccolo e preciso. In un punto lontano, forse a un chilometro o poco più, il tramonto aveva isolato l'alto tronco di un pino, che ardeva in mezzo al verde come una candela in una camera scura; la strada dove ogni pietra gettava ora una lunga ombra nera, pareva coperta di una patina color porpora, e i capelli della fanciulla, inondati dai raggi, splendevano come un'aureola d'oro e di rosso. Un capello sottilissimo e riccio si era staccato dagli altri e serpeggiava e oscillava nell'aria come una ragnatela dorata.
Anche se ogni cosa davanti a loro si era fatta improvvisamente buia, i due giovani continuavano a chiacchierare. Chiare, franche, cordiali come prima, le loro parole scorrevano in un rivo tranquillo, toccando sempre lo stesso argomento: la forza, la bellezza e l'immortalità dell'amore. Erano entrambi molto giovani: la fanciulla aveva appena diciassette anni, Nemoveckij quattro più di lei; indossavano entrambi la divisa degli studenti: essa, il semplice vestito color mattone di una studentessa liceale; il compagno, l'elegante uniforme del politecnico. E come le parole, ogni cosa in loro era giovane, bella e pura: le figure snelle e flessuose che parevano permeate d'aria, l'andatura leggera ed elastica e le fresche voci che risuonavano di una pensosa tenerezza anche nelle parole più semplici, come una sorgente in una dolce notte primaverile, quando i campi neri non si sono ancora completamente sciolti dall'abbraccio della neve.
Camminavano, seguendo le svolte della strada sconosciuta, e due lunghe ombre, che si facevano sempre più sottili, con due piccole buffe teste, ora si riflettevano davanti, separate, ora disegnavano di sbieco una sola striscia stretta e allungata come l'ombra di un pioppo. Ma i due non vedevano le ombre; continuavano a parlare, e intanto egli non distoglieva lo sguardo dal bel viso di lei, dove il rosso tramonto pareva aver lasciato una sfumatura delle sue tinte delicate, mentre ella fissava il sentiero, spingendo via con la punta dell'ombrello le pietruzze, e seguiva con lo sguardo ora una punta ora l'altra delle graziose scarpette che sbucavano dall'abito scuro.
La strada era tagliata da un fossatello dagli orli polverosi, sgretolati dai piedi dei passanti: i due giovani si fermarono un attimo. Zinocka alzò il capo, si guardò intorno incerta, con gli occhi offuscati, e domandò:
«Sapete dove siamo? Io non sono mai stata qui».
Egli esaminò attentamente il luogo.
«Sì, lo so. Là dietro quell'altura c'è la città. Datemi la mano, vi aiuterò.»
E tese la sua, una mano signorile, snella e bianca come quella di una donna. Zinocka si sentiva allegra, avrebbe voluto saltare il fossato da sola, correre avanti e gridare: «Raggiungetemi!», ma si trattenne, abbassò leggermente il capo con un cenno riconoscente, e tese in un gesto un po' timido la mano ancora paffuta, come quella di una bimba. Avrebbe voluto stringere quella manina tremante sino a farle male, ma si trattenne egli pure accennando un inchino, rispettosamente l'accolse e volse deliberatamente la testa quando nel salto apparì sotto la veste la caviglia della fanciulla.
E di nuovo ripresero a camminare e a parlare, ma la loro mente conservava la sensazione delle due mani per un attimo unite. Ella sentiva ancora la palma ardente e asciutta, e le forti, secche dita di lui: una sensazione piacevole ma un po' conturbante; egli, la docile morbidezza della piccola mano, e vedeva la nera forma del piede e della calzatura che lo abbracciava ingenuamente e teneramente. C'era qualcosa di acuto, di inquieto e d'insistente in quella visione appena balenata di una sottile striscia bianca di sottoveste e del grazioso piedino: e con un inconsapevole sforzo di volontà la spense. E allora provò una tale esultanza, gli parve di sentirsi il cuore così largo e libero in petto, che ebbe voglia di cantare, di stendere le braccia verso il cielo e gridare: «Correte, io vi raggiungerò!»: l'antica espressione di amore primitivo tra i boschi e le sonanti cascate.
E in gola gli salirono lacrime per tutti quei desideri.
Le lunghe, buffe ombre erano scomparse, e la polvere della strada si era fatta grigia e fredda; ma non se ne accorgevano e continuavano a parlare. Avevano letto entrambi molti buoni libri, e le figure luminose di persone che avevano amato e sofferto, e avevano incontrato la morte per il loro puro amore si ergevano davanti ai loro occhi. Nella mente affioravano passi di poesie lette chi sa quando, che vestivano l'amore di versi armoniosamente sonori e dolcemente tristi.
«Non ricordate di chi sono queste parole?» domandava Nemoveckij: «'E di nuovo è con me colei che amo, cui ho celato senza pronunciar verbo la mia angoscia, la mia tenerezza, tutto il mio amore...'.»
«No,» rispose Zinocka. E ripeté pensosa: «'... la mia angoscia, la mia tenerezza, tutto il mio amore...'.»
«Tutto il mio amore», fece involontariamente eco Nemoveckij.
E continuarono a ricordare... Rievocavano fanciulle pure come gigli bianchi che indossavano la nera veste monacale, nostalgiche, in un parco coperto delle foglie d'autunno, felici nella loro malinconia; e giovani fieri e coraggiosi ma invocanti l'amore con accenti di sofferenza, e la dolce pietà di un cuore femminile. Erano piene di tristezza le immagini rievocate, ma in quella tristezza appariva più luminoso e più puro l'amore. Esso sorgeva davanti ai loro occhi immenso come il mondo, luminoso come il sole e meravigliosamente bello: nulla esisteva sulla terra di più bello e più potente.
«Dareste la vita per la persona amata?» domandò Zinocka, guardandosi la manina quasi di bimba.
«Sì, la darei» rispose sicuro Nemoveckij, fissandola con uno sguardo aperto e sincero. «E voi?»
«Sì, anch'io» e rimase pensosa. «Deve essere una felicità così grande morire per l'uomo amato... Lo desidererei tanto.»
I loro occhi si incontrarono, chiari, calmi e si rimandarono a vicenda una luce buona, e le loro labbra sorrisero. Zinocka si fermò.
«Aspettate,» disse «avete un filo sulla giacca.»
E alzò la mano verso la spalla di lui con ingenua fiducia e cautamente, con due dita, tolse il filo.
«Ecco!» esclamò, e di nuovo seria chiese: «Perché siete così magro e pallido? Studiate molto, vero? Non stancatevi troppo, non dovete.»
«Avete le iridi azzurre, picchiettate di puntini luminosi, come scintille» rispose, guardandola negli occhi.
«E le vostre sono nere. No, marrone, di un marrone caldo. E dentro... »
Zinocka non disse che cosa vi vedeva; volse altrove il capo e un rossore le invase lentamente il viso, gli occhi divennero confusi e timidi, ma le labbra continuavano a sorridere. E senza aspettare Nemoveckij che pure sorrideva felice, riprese a camminare, ma sùbito tornò a fermarsi.
«Guardate, il sole è tramontato!» esclamò con uno stupore doloroso.
«Sì, è tramontato», rispose il giovane con un improvviso e acuto senso di tristezza.
La luce si era spenta, le ombre erano morte e ogni cosa intorno divenne pallida, muta e senza vita. Dove prima risplendeva il disco incandescente del sole, di là strisciavano ora senza rumore verso l'alto scure masse di nuvole e passo passo ingoiavano il chiaro spazio azzurro, si raggomitolavano, si urtavano; mutavano lentamente e pesantemente le sagome dei mostri destati, e avanzavano svogliatamente, quasi spinte loro malgrado, da una terribile e inesorabile forza. Staccatasi dalle altre, una nuvoletta chiara e fioccosa si agitava solitaria, debole e sgomenta.

II
Le guance di Zinocka impallidirono, le labbra divennero più rosse, quasi color sangue, le pupille si erano dilatate invadendo gli occhi d'ombra; la fanciulla sussurrò piano:
«Ho paura. C'è tanto silenzio, qui. Ci siamo persi?»
Nemoveckij aggrottò le folte sopracciglia e scrutò attentamente il luogo. Senza sole, sotto il freddo alito della notte che si avvicinava, esso appariva squallido, nudo, e dappertutto si stendeva la campagna grigia, rivestita di erba bassa che pareva pestata, con fossatelli, rialzi e depressioni: alcuni fossi erano profondi e dirupati, altri, più piccoli, coperti di rampicante; le tenebre silenziose si erano già allungate, per la notte; non c'era più nessuno, ormai, e la solitudine rendeva il luogo ancora più deserto e più triste. Qua e là sorgevano, come grumi di fredda nebbia violacea, boschetti e gruppi di alberi, in attesa - sembrava - di quanto avrebbero detto loro i fossi abbandonati.
Nemoveckij soffocò una vaga, opprimente angoscia che gli nasceva dentro, e disse: -
«No, non ci siamo persi. Conosco la strada. Bisogna prima passare per la campagna, poi attraversare quel boschetto. Avete paura?».
Ella sorrise coraggiosa e rispose:
«No, ora no. Ma dobbiamo rientrare presto per il tè.»
Si avviarono a passi svelti e decisi, ma presto rallentarono. Guardavano diritto davanti a loro, ma sentivano la cupa ostilità dell'avvallamento che li circondava con mille occhi opachi e immobili, e quella sensazione li avvicinava uno all'altra, rievocando il tempo dell'infanzia. Erano ricordi sereni, illuminati dal sole, dal fogliame verde, dall'amore e dalle risate. Come se quella non fosse vita ma una lunga dolce canzone di cui essi erano i suoni, due piccole note: una squillante e limpida come. il tintinnio del cristallo, l'altra un poco più grave, ma più sonora, come un campanello.
Si profilarono due figure, due donne sedute sull'orlo di un profondo fosso argilloso: una aveva le gambe accavallate e fissava il suolo: lo scialletto sulla testa le era scivolato, scoprendo ciocche di capelli arruffati; era piegata in avanti, e sulla schiena curva le si arrampicavà una sudicia giacca a fiori grandi come mele, dal cinturino slegato; non guardava neppure i passanti. L'altra le stava distesa accanto, con la testa arrovesciata. Aveva un viso volgare, largo e maschio, e sotto gli occhi ardevano sugli zigomi sporgenti due masse rosso mattone che parevano una spellatura fresca: era ancora più sudicia della compagna e fissava direttamente in faccia quelli che passavano. Quando il giovane e la ragazza le ebbero superate, ella si mise a cantare con voce baritonale:


Solamente per te, o mio amato
son fiorita come fiore profumato...

«Varka, hai sentito?» chiese rivolta alla vicina taciturna. Non ricevette risposta e uscì in una risata forte e volgare.
Nemoveckij le conosceva bene, quelle donne, sudice anche quando indossavano vesti sfarzose, e ora scivolarono sul suo sguardo senza lasciar traccia. Ma Zinocka, che le aveva quasi sfiorate col modesto abito marrone, sentì per un attimo penetrarsi nell'anima qualcosa di ostile, miserabile, cattivo. Poco dopo, tuttavia, l'impressione si era già dileguata, come l'ombra di una nuvola che scivola rapida sul prato pieno di sole, e quando un uomo in giacca e berretto, ma scalzo, e una donna, anch'essa discinta, li sorpassarono, i suoi occhi li videro ma il cervello non li percepì. Inconsciamente seguì a lungo con lo sguardo la donna, un poco stupita che l'abito sottile e leggero le si appiccicasse alle gambe come se fosse fradicio, segnato all'orlo da una larga striscia di unto... V'era un che di ansioso, di malaticcio, di disperato nell'ondeggiare di quella veste sottile e sudicia.
E camminavano e parlavano sempre, e dietro di loro si muoveva pigramente una nuvola scura sfiorando cautamente la terra con l'ombra; sui suoi larghi orli balenavano macchie opache di un giallo color rame, risucchiate silenziosamente con un bagliore chiaro dietro la massa pesante. Le tenebre si addensavano, impalpabili e invisibili, e pareva fosse sempre giorno, ma un giorno gravemente malato e a poco a poco morente. Ora essi parlavano di quei pensieri e sentimenti terribili che vengono all'uomo mentre dorme e non è disturbato da parole e da rumori e quella cosa simile a tenebra che è la vita, grande e occhiuta, si stringe e aderisce al suo volto.
«Riuscite a immaginarvi l'infinito?» domandò Zinocka, posandosi sulla fronte la manina paffuta e socchiudendo gli occhi.
«No. L'infinito.., no» rispose Nemoveckij, e anch'egli chiuse gli occhi.
«Io invece lo vedo, ogni tanto. Lo scorsi per la prima volta quando ero ancora molto piccina. Era come se fossero dei carri. C'è un carro, poi un altro, un terzo e così lontano, senza fine, sempre dei carri.., dei carri... una cosa spaventosa» e sussultò.
«Ma perché dei carri?»
Nemoveckij sorrise, pur sentendosi a disagio. «Non lo so. Carri: uno, un altro... senza fine.»
Il buio si addensava insinuante, la nuvola li aveva ormai oltrepassati e si volgeva a spiare i loro volti chini, divenuti pallidi. E sempre più frequenti si delineavano le sagome scure delle donne sudice e cenciose, quasi fossero vomitate sulla terra dai fossi profondi, scavati chi saperche, e gli orli fradici delle loro vesti si agitavano al vento, ansiosi. Comparivano sole o a gruppi di due, di tre e le loro voci risuonavano stranamente solitarie nell'aria quieta.
«Chi sono queste donne? Di dove vengono, in tante?» domandò Zinocka con voce sommessa e spaurita. Nemoveckij sapeva chi erano, quelle donne, e non si sentiva tranquillo, in una località così malfamata e infida. Ma rispose con calma:
«Non lo so. Ma non parliamo di loro.., ecco, ora attraversiamo il boschetto, e poi c'è sùbito la barriera e la città. Non dovevamo uscire così tardi.»
Quelle parole parvero buffe a Zinocka. Tardi! Ma se erano usciti alle quattro... Lo guardò e sorrise. Ma le sopracciglia di lui erano aggrottate e per calmarlo e per rasserenarlo ella propose:
«Camminiamo più in fretta. Ho voglia di prendere il tè. Il boschetto è ormai vicino.»
«Andiamo.»
Quando entrarono nel folto e le cime degli alberi si intrecciarono sopra di loro, il buio si fece molto fitto; ma si sentirono più calmi, più tranquilli.
«Datemi la mano» disse Nemoveckij.
Ella, incerta, gli tese la mano, e quel lieve contatto parve dissipare il buio Le loro mani erano immobili e non si stringevano; Zinocka si scostava persino un poco dal compagno; ma tutto il loro essere era concentrato in quel piccolissimo punto dove i loro due corpi si incontravano. Sentivano di nuovo il desiderio di parlare della bellezza, della forza misteriosa dell'amore, ma di parlarne senza rompere il silenzio, senza suoni, soltanto con lo sguardo. E avrebbero dovuto guardarsi negli occhi: avrebbero anché voluto, ma non osarono.
«Ecco, ancora gente». disse allegra Zinocka.

III
Sul praticello dove la luce ancora indugiava sedevano tre uomini, accanto a una bottiglia vuota, e guardavano i due avvicinarsi con l'aria di chi attende qualcosa. Uno di loro, un uomo rapato, scoppiò in una risata ed emise un fischio che pareva un «Ah, ah» di canzonatura e insieme di minaccia.
Nemoveckij si sentì il cuore in gola, preso da una terribile angoscia, ma, come se qualcuno lo sospingesse avanti, continuò a camminare alla volta degli uomini seduti lungo il viottolo. Gli altri aspettavano e sei occhi nereggiavano immobili, paurosi. Con la vaga speranza d'ingraziarsi quegli uomini cupi e cenciosi nel cui silenzio tremava una minaccia, cercando di suscitar compassione rivelando la propria debolezza, egli domandò:
«Da che parte, per favore, per la barriera? Da questa?».
Nessuno gli rispose. L'uomo rapato fischiò di nuovo: un fischio incomprensibile ma canzonatorio, mentre gli altri due tacevano e osservavano i giovani con una pesante, minacciosa fissità. Erano ubriachi, eccitati, ardenti di cupidigia e di distruzione. L'uomo dal viso gonfio e paonazzo si puntellò sul gomito, poi con la goffaggine di un orso si sollevò sulle grosse mani che parevano zampe e si alzò con un profondo sospiro. I compagni gli lanciarono uno sguardo obliquo, poi tornarono a fissare Zinocka.
«Ho paura» sussurrò la fanciulla a for di labbra.
Nemoveckij non distinse le parole, ma le capì dalla manina che sentì improvvisamente pesare nella sua. E sforzandosi di apparir calmo, pur presentendo la terribile inevitabilità di ciò che stava per accadere, continuò a camminare con passi fermi e regolari. I sei occhi si avvicinarono, brillarono e rimasero alle spalle. «Dobbiamo correre», pensò Nemoveckij, ma immediatamente ribatté al suo stesso pensiero: «No, non possiamo correre».
«Vale poco il ragazzo, fa quasi rabbia» disse il terzo degli uomini seduti, un tizio calvo con una rada barbetta rossiccia. «E la bambina è tutt'altro che male, augurabile a chiunque.»
Risero tutti e tre, svogliatamente.
«Ehi, signore, aspetta, voglio dirti una parola!» fece con una profonda voce di basso il più alto della compagnia; e guardò i compagni.
Gli altri si alzarono.
Nemoveckij continuava a camminare senza voltarsi.
«Ci si ferma quando si è interpellati», disse quello dai capelli rossicci. «Altrimenti si rischia di buscarsi una sberla.»
«Ehi, parliamo con te!», urlò l'uomo alto e in due salti raggiunse la coppia.
Una mano massiccia calò sulla spalla di Nemoveckij e lo fece oscillare; quando si volse, il giovane vide a un palmo dal viso due occhi rotondi, sporgenti, paurosi. Erano così vicini che gli pareva di guardarli attraverso una lente, distingueva persino chiaramente le venuzze rosse del bianco e il pus giallastro sulle ciglia. E lasciando la mano abbandonata di Zinocka, si ficcò la sua in tasca e balbettò:
«Soldi... Eccovi dei soldi... Volentieri...».
Gli occhi sporgenti si facevano sempre più rotondi e più bianchi. E quando Nemoveckij smise di fissarli, l'uomo alto fece un passo indietro e da fermo sferrò un pugno sotto il mento di Nemoveckij. La testa del ragazzo ciondolò, i denti batterono; il berretto scivolò sul naso, poi in terra; allargando le braccia egli cadde supino. In silenzio, senza un grido, Zinocka si volse e si mise a correre con tutta la velocità di cui era capace. L'uomo rapato emise un lungo, strano grido:
«A-a-ah! »
E continuando a gridare si precipitò a inseguirla.
Nemoveckij si rialzò a fatica, barcollando, ma non era ancora in piedi che un altro pugno alla nuca lo rigettò per terra. Erano in due contro uno, ed egli debole, non abituato a menar le mani; tuttavia lottò a lungo: graffiava, come una donna che si difende, singhiozzava, preso da una inutile disperazione, e mordeva. Quando giacque stremato lo sollevarono e lo portarono via; opponeva ancora una debole resistenza ma sentiva un ronzio nella testa, poi improvvisamente perdette la nozione delle cose e, privo di forze, si abbandonò tra le braccia che lo reggevano. L'ultima cosa che vide fu un lembo di barba rossiccia che per poco non gli entrava in bocca e, dietro, il buio del bosco e la camicetta chiara di Zinocka che correva. Correva in silenzio, veloce, come qualche giorno prima mentre giocava a gorelki 
a brevi passi la inseguiva l'uomo rapato. Poi Nemoveckij si sentì sprofondare nel vuoto, col cuore sospeso precipitò m basso, cadde urtando con tutto il corpo contro la terra e perdette i sensi.
L'uomo alto e quello dai capelli rossicci sostarono un attimo con l'orecchio teso verso il fondo del fosso, dove avevano gettato il ragazzo; ma il viso e gli occhi erano rivolti dove Zinocka stava correndo. Giunse di là un acuto strillo di donna, e tacque, subito soffocato. L'uomo alto esclamò:
«Mascalzone!» e, lasciato il sentiero, si mise a correre, aprendosi come un orso il passaggio tra i rami.
«Anch'io, anch'io!» gridò con voce stridula il rosso, lanciandoglisi dietro. Era debole e ansava, nella lotta si era scorticato un ginocchio e l'idea che, pur avendo suggerito l'aggressione, sarebbe stato l'ultimo a godersi la ragazza gli faceva salire il sangue alla testa. Si fermò un attimo, si strofinò con la mano il ginocchio, sì soffiò il naso premendo il dito su una narice e riprese a correre gridando lamentosamente:
«Anch'io, anch'io!».
La nuvola nera aveva ormai coperto tutto il cielo, ed era scesa la notte calma e scura. Le tenebre avevano ormai inghiottita la tozza figura del rosso, ma a lungo si udì lo scalpiccio ineguale dei suoi piedi, il fruscio delle foglie mosse e il lamentoso, tremolante grido:
«Anch'io, ragazzi, anch'io!».

IV
Nemoveckij aveva la bocca piena di terra che gli scricchiolava tra i denti. Appena riprese i sensi sentì, violento e acre, il forte odore tranquillo del terriccio umido. Aveva la testa pesante, intorpidita e non riusciva a voitarla, quasi fosse di piombo. Gli doleva tutto il corpo, soprattutto la spalla, ma non c'era nulla di rotto. Sedette e a lungo fissò il cielo, senza pensare a nulla e senza ricordare nulla. Sopra il suo capo sporgeva un cespuglio dalle larghe foglie nere, attraverso cui traspariva il cielo ormai sgombro. La nuvola era passata senza versare una sola goccia di pioggia, ma aveva asciugato l'aria rendendola leggera, e in alto, nel mezzo del cielo, era salita la mezza luna, dagli orli trasparenti e sfumati. Viveva le ultime notti e brillava di una luce fredda, triste e solitaria. Fiocchi di nuvole correvano veloci in alto, dove certo il vento soffiava più forte, senza però velare la luna: cautamente le giravano intorno. Nella solitudine della falce d'argento, nella cura con cui la evitavano le alte nuvolette luminose, nel vento che soffiava lassù, ma in basso non si avvertiva, era la misteriosa profondità della notte che regnava sopra la terra.
A un tratto Nemoveckij ricordò tutto l'accaduto, ma gli parve qualcosa d'irreale. Era così spaventoso, così lontano dalla verità che non era possibile fosse tanto atroce, e anch'egli, seduto là in piena notte, a guardar dal basso la luna rovesciata e le nuvolette che correvano, era strano e irreale. Pensò allora che certo era un sogno terribile, un incubo. Anche tutte quelle donne che avevano incontrato erano un incubo.
«Non è possibile», disse decisamente a se stesso e dondolò un poco la testa pesante. «Non è possibile».
Tese la mano cercando il berretto per riprendere il cammino, ma il berretto non c'era. E questo, di colpo, gli schiarì la mente, ed egli comprese che quanto era accaduto non era un sogno, ma un'atroce realtà.
Un attimo dopo, col respiro mozzo dall'orrore, già si arrampicava per il fossato, ricadeva insieme alla terra che franava e gli cedeva di sotto, tornava ad arrampicarsi afferrandosi ai rami flessibili del cespuglio.
Uscito dal fosso egli corse diritto davanti a sé, senza capire quello che facesse, senza dirigersi verso un punto determinato; e a lungo corse così tra gli alberi. Poi, sempre improvvisamente, senza un'idea chiara, si precipitò dalla parte opposta, e di nuovo i rami gli graffiavano il viso e ancora tutto pareva un sogno. Gli sembrava di vivere qualcosa che aveva già provato: il buio, i rami invisibili che gli graffiavano il viso, e quella corsa cieca, come in un sogno. Si fermò, poi sedette, nella posizione scomoda e insolita di chi è seduto per terra senza un rialzo. E di nuovo pensò al berretto, e disse: «Sono io. Devo uccidermi. Devo uccidermi anche se è un sogno».
Balzò in piedi e riprese a correre, poi tornò del tutto in sé e rallentò, cercando di raffigurarsi confusamente il punto in cui lui e Zinocka erano stati aggrediti. Nel bosco il buio era assoluto, ma di tanto in tanto filtrava un pallido raggio di luna e ingannava illuminando i tronchi bianchi, e il bosco sembrava popolato di uomini immobili e silenziosi. Anche questo era già accaduto, anche questo pareva un sogno.
«Zinaida Nikolaevna!» chiamava Nemoveckij, gridando forte la prima parola e pronunciando piano la seconda, come se, col suono, perdesse la speranza che qualcuno potesse rispondere.
E nessuno rispondeva.
Sbucò sul sentiero, lo riconobbe e raggiunse il praticello. E di nuovo, con lampante chiarezza, si rese conto che quella era la realtà, e pieno di orrore si volse di qua e di là, affannosamente, gridando:
«Zinaida Nikolaevna! Sono io! Io!»
Nessuno rispondeva, e volgendo il viso nella direzione in cui avrebbe dovuto esserci la città Nemoveckij gridò, scandendo le sillabe:
«A-i-u-t-o! ».
Poi riprese a correre di qua e di là, sussurrando qualcosa, frugando tra i cespugli, quando proprio davanti ai suoi piedi sorse una confusa macchia biancastra: pareva una debole luce stagnante. Era Zinocka, sdraiata a terra.
«Oh Dio! Che cos'è?» proruppe Nemoveckij. Non piangeva, ma aveva la voce rotta da singulti; inginocchiatosi, toccò la fanciulla sdraiata.
La sua mano incontrò il corpo nudo, liscio ed elastico, freddo ma non morto; con un tremito Nemoveckij la ritrasse.
«Cara, piccola cara, sono io» sussurrò, cercando al buio il viso di lei.
E di nuovo tese la mano, da un'altra parte, e di nuovo incontrò il corpo nudo, e ancora: dovunque la posasse incontrava quel corpo nudo di donna, liscio, elastico, che pareva intiepidirsi al suo contatto. Ora ritraeva immediatamente la mano, ora la lasciava un poco; senza berretto, con gli abiti a brandelli, non gli pareva di essere lui, e allo stesso modo non riusciva a collegare l'immagine di Zinotka con quel corpo nudo. E ciò che era accaduto qui, ciò che gli uomini avevano fatto di quell'indifeso corpo di fanciulla gli sorse dinanzi alla mente in tutta la sua orrenda chiarezza e si ripercosse con strana, eloquente forza in tutto il suo essere. Stirò le membra con tale violenza che le giunture scricchiolarono; poi, con il cervello intorpidito, fissò quella macchia biancastra e aggrottò le sopracciglia come un uomo che si concentri. L'orrore di quello che era accaduto si raggrumava in lui, si ravvolgeva e giaceva nell'anima come qualcosa di estraneo, di impotente.
«Oh, Dio! Che cos'è?». disse ancora, ma le parole suonarono false, non spontanee.
Le cercò il cuore: batteva debolmente ma regolare e, chinandosi sul suo viso, egli percepì un debole respiro, come se la fanciulla non fosse profondamente svenuta, ma semplicemente dormisse. La chiamò piano:
«Zinocka. Sono io».
E in quell'attimo sentì, chi sa perché, che era meglio non si svegliasse ancora. Trattenendo il respiro, guardandosi furtivamente intorno, l'accarezzò lievemente sulla guancia e la baciò prima sugli occhi, poi sulle labbra che si schiusero dolcemente sotto il suo bacio ardente. Atterrito all'idea che si destasse, si raddrizzò e restò immobile. Ma il corpo era muto e fermo, e nel suo abbandono, nella sua arrendevolezza c'era qualcosa di pietoso e di provocante insieme che attirava irresistibilmente. Con una tenerezza profonda e la circospezione di un ladro, Nemoveckij cercava di coprirla con i brandelli del suo vestito, e la doppia sensazione della stoffa e della carne era acuta come la lama di un coltello e inconcepibile come una follia. Egli, difensore e al tempo stesso aggressore, cercava aiuto al bosco che lo circondava e alle tenebre, ma il bosco e le tenebre glielo negavano. Qui era il banchetto dell'animalità pura, e, gettato improvvisamente oltre l'umano, comprensibile e semplice, egli beveva l'ardente voluttà che era nell'aria e dilatava le narici.
«Sono io! Io!» ripeteva follemente, senza comprendere ciò che gli era intorno; aveva ancora negli occhi il ricordo di poco prima, un lembo della sottoveste bianca e la sagoma scura del piede e la scarpetta che teneramente lo abbracciava. Tendendo l'orecchio al respiro di Zinocka, senza staccare gli occhi dalla macchia del suo viso, allungò una mano. Ascoltò ancora e la allungò ancora un poco.
«Dio, che cos'è?», urlò con disperazione, e balzò in piedi, pieno di orrore per se stesso.
Un attimo balenò davanti ai suoi occhi il volto di Zinocka, e scomparve. Nemoveckij si sforzava di afferrare l'idea che quel corpo era Zinocka, la fanciulla che gli camminava accanto poco prima e parlava dell'infinito; ma non riusciva. Cercava di sentire l'orrore di quanto era accaduto, ma troppo orribile era il pensiero che quella era la verità perché lo si potesse penetrare.
«Zinaida Nikolaevna» gridò supplichevole. «Perché è successo? Zinaida Nikolaevna!»
Ma il corpo torturato rimaneva muto, e balbettando parole sconnesse Nemoveckij piegò ancora le ginocchia. Supplicava, minacciava, giurava che si sarebbe ucciso e scuoteva la fanciulla distesa, stringendola a sé, conficcandole quasi le unghie nella carne... Il corpo ora tiepido, obbediva morbidamente, seguiva docilmente i suoi movimenti, e tutto questo era così spaventoso, incomprensibile e pazzesco che Nemoveckij balzò di nuovo in piedi e gridò:
«Aiuto!» e di nuovo il suono era falso, sforzato.
Ancora si gettò sul corpo che non resisteva, baciandolo, piangendo, sentendosi spalancare dinanzi un abisso scuro, pauroso, che lo attirava. Nemoveckij non esisteva più, era rimasto indietro, chi sa dove, e l'uomo di ora brancicava con passione crudele quel tiepido docile corpo e diceva col sorriso astuto di un pazzo:
«Rispondi! O non vuoi? Ti amo, ti amo!».
Con lo stesso astuto sorriso avvicinò gli occhi sbarrati al viso di Zinocka e sussurrò:
«Ti amo. Tu non vuoi parlare, ma sorridi, lo vedo. Ti amo, ti amo, ti amo».
Serrò contro di sé il corpo morbido, docile, che suscitava in lui, con la sua morta arrendevolezza, una passione selvaggia, torceva le braccia e sussurrava senza suono, conservando dell'uomo soltanto la capacità di mentire:
«Ti amo. Non lo diremo a nessuno, e nessuno saprà. E io ti sposerò domani, quando vorrai. Ti amo. Ti bacerò e turni risponderai. Va bene? Zinocka...».
E con forza premette la bocca sulle labbra di lei, sentendo i denti penetrar nella carne, e nel dolore e nella violenza del bacio perdette l'ultimo barlume di coscienza. Gli parve che le labbra della fanciulla tremassero. Un terrore abbagliante, come una fiamma, accecò un attimo il suo cervello, spalancandogli dinanzi un abisso nero.
E l'abisso nero lo inghiottì.

venerdì 13 gennaio 2012

Rebecca la prima moglie - Daphne Du Maurier





(Rebecca - 1938)

 Una figura si staccò dal mare di facce, una figura alta e ossuta, vestita di nero, d'un nero d'inchiostro, cui gli zigomi salienti e i grandi occhi infossati davano l'aspetto lugubre d'un teschio, un teschio color della pergamena, piantato su di uno scheletro. La donna avanzò verso di me, e io, invidiandole la sua composta dignità, le tesi la mano; ma quella che prese la mia era inerte e pesante, mortalmente gelida, e la sentii come una cosa senza vita.
"Questa è la signora Danvers", disse Maxim.

Siamo sulle splendide coste della  Cornovaglia, ma potremmo essere ovunque nel mondo, a vivere l'incubo comune a tutte le donne che arrivano per seconde nella vita di un uomo. Quando le ombre del passato arrivano gradatamente a rovinare la vita,  quando la fragilità si fa insicurezza, quando il dubbio diventa gelosia e infine dalla paura si passa alla follia.... ecco, arriva Alfred Hitchcock, che trasforma l'incubo in uno splendido film.
Libro del '38, film del '40: una combinazione rappresentativa eccellente, con una perfida Judith Anderson nei neri panni della signora Danvers.


Joan Fontaine e Judith Anderson nel film di Hitchcock


Laurence Olivier e Joan Fontaine nel film di Hitchcock

mercoledì 4 gennaio 2012

La tigre nella giungla - Henry James






(The beast in the jungle - 1903)

"Vide la giungla della sua vita e vide la tigre pronta al balzo. Spaventosa, enorme, nel fremito dell'aria la sentì drizzarsi nel salto che doveva finirlo."

John Marcher vive nell'attesa che si materializzi una minaccia, sconosciuta e incombente. La sua ossessionante tigre in agguato non lo assale mai, eppure riesce a condizionarlo per tutta l'esistenza. Un percorso interiore autodistruttivo, che lo porterà, ovviamente, alla Terra Desolata.



Henry James (USA 1843-1916)