(1962)
"Ehi, ma sei proprio anche cieco!", fece una voce allegra di ragazza.
Per via dei capelli biondi, di quel biondo particolare striato di ciocche nordiche, da fille aux cheveux de lin, che non apparteneva che a lei, riconobbi subito Micol Finzi-Contini. Si affacciava dal muro di cinta come da un davanzale, sporgendone con tutte le spalle e appoggiandovisi a braccia conserte. Sarà stata a non più di venticinque metri di distanza (sufficientemente vicina, dunque, perché riuscissi a vederle gli occhi, che erano chiari, grandi, forse troppo grandi, allora, nel piccolo viso magro di bimba), e mi osservava di sotto in su.
In quinta ginnasio cominciammo a fare le recensioni di film tratti da romanzi, e a me toccò, per primo, Il Giardino dei Finzi-Contini. Quando stilai la mia relazione, ero ancora frastornata dalle scene di tennis-amore-deportazione del film, e dal contrasto, nel libro, tra la condiscendenza della famiglia signorile e la semplicità della famiglia di Giorgio: entrambe livellate alla fine da qualcosa di terrificante.
Oggi, Giornata della Memoria, ero indecisa se proporre Il diario di Anna Frank, o questo bel romanzo di Bassani. In ogni caso, io mi metto dalla parte delle vittime: quelle di allora e quelle di oggi, e non giustifico i carnefici: quelli di allora, e quelli di oggi.
Lino Capolicchio e Dominique Sanda nel film di De Sica del 1970.