Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
22 marzo 1950
La vita di ogni poeta è di per sé un romanzo. Infelicità, drammi, avventure, amori tormentati, sofferenze; e non ultimo: suicidi. Ogni poeta, musicista, artista ha sperimentato sulla propria pelle il malessere di vivere, traducendolo poi in opere sublimi. Ogni opera d'arte è nata da una sofferenza, e Pavese ne è un esempio assoluto. Questo libricino di appena 37 pagine, pubblicato postumo nel 1951, raccoglie le nove poesie di "La terra e la morte", e le dieci poesie (otto in italiano e due in inglese) di "Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi"; queste ultime scritte nel 1950 e dedicate a Constance Dowling, ultimo e mai posseduto amore.
Cesare Pavese (1908-1950)
THE NIGHT YOU SLEPT - CESARE PAVESE
RispondiEliminaAnche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia -
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l’alba.
4 aprile 1950
37 pagine che si leggono in un'ora e si rileggono per tutta una vita.
RispondiEliminaColpo basso questo! Nella nostra zona d'ombra compare anche Pavese, con le sue lucide, disperate parole. Nessuno di noi è immune, nessuno di noi può entrare nelle sue pagine ed uscirne illeso. Bellissima scelta, bellissimo, infelice Poeta.
RispondiEliminaIl tempo di trovarla - il tempo di copiarla. Sei la luce e il mattino, dice Pavese, perché ci spero ancora, ti aspetto, ti voglio, ci credo, voglio crederci, voglio illudermi. Finirà questa triste notte, tornerà l'alba. Perché tu al mattino ritorni sempre. Una meraviglia, un sogno.
RispondiEliminaIn the morning you always come back - Cesare Pavese
Lo spiraglio dell'alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote.
Luce grigia i tuoi occhi,
dolci gocce dell'alba
sulle colline scure.
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell'alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre -
sei la vita, il risveglio.
Stella sperduta
nella luce dell'alba,
cigolìo della brezza,
tepore, respiro -
è finita la notte.
Sei la luce e il mattino.
20 marzo 1950
Cesare Pavese, antifascista. Da "La terra e la morte":
RispondiEliminaTu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l'arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.
Commento a pelle, senza riprendere in mano il libro. Lui è meravigliosamente triste, e ci cattura con la musicalità dei suoi versi. Hai ragione quando affermi che le più esaltanti opere d'arte nascono sempre da un trauma, o da una sofferenza. In particolare, nessun poeta ha avuto una vita facile, o una morte tranquilla: basti pensare ai poeti romantici inglesi di cui hai parlato, tutti cari agli dei e morti giovani in circostanze drammatiche, per non dire tragiche (eccezion fatta per Wordsworth, defunto tranquillamente nel suo letto da vecchio). Non credo sia frequente che qualcuno sia riuscito a rendere immortali la gioia, l'allegria e la serenità; lo stesso Inno alla gioia del connubio Schiller-Beethoven è triste, pomposo e inquietante, per non parlare dei Carmina Burana, delle grandi opere liriche, dei quadri di Picasso, per non parlare poi delle poesie di Neruda (amore-passione-Pinochet)e così via, all'infinito. Il mio omaggio a Pavese arriverà tra poco. Prima mi premeva dire queste cose, che in realtà penso da sempre.
RispondiElimina"La novità principale della poesia è quella che il poeta identifica la morte negli occhi dell’attrice americana Constance Dowling,intravede, intuitivamente, la propria morte nell’attrice e nei suoi occhi, che lo guardano attenti e fissi. L’idea della morte è per lui un pensiero costante"
RispondiEliminaProfessore Biagio Carrubba.
The cats will know - Cesare Pavese
RispondiEliminaAncora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l'alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole -
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l'alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell'alba,
viso di Primavera.
E' triste, lo so. Eppure è una sensazione intensa lasciarsela scivolare addosso, provare sulla propria pelle il dolore di un uomo, sia quello espresso apertamente nella disperata rassegnazione, sia quello inespresso, stracciante, che sappiamo bene dove lo porterà. Credo che il dolore, per Pavese, rappresenti l'espressione più alta, più esasperata di tutta la letteratura italiana.
Dal dolore nascono profonde emozioni,il dolore apre le porta dell'anima;,ed è nella sofferenza che si assaporano profondamente sensazioni volutamente relegate in un angolino e che solo l'esasperazione dello sconforto,riesce a materializzare come esistenti e da qui nascono bellissime poesie
EliminaEcco la mia poesia. L'ho scelta perché ognuno di noi, a volte, viene sopraffatto dalla paura di perdere chi amiamo.
RispondiEliminaYou, wind of March - Cesare Pavese
Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda -
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
- anemone o nube -
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.
Il tuo passo leggero
ha riaperto il dolore.
Era fredda la terra
sotto povero cielo,
era immobile e chiusa
in un torpido sogno,
come chi più non soffre.
Anche il gelo era dolce
dentro il cuore profondo.
Tra la vita e la morte
la speranza taceva.
Ora ha una voce e un sangue
ogni cosa che vive.
Ora la terra e il cielo
sono un brivido forte,
la speranza li torce,
li sconvolge il mattino,
li sommerge il tuo passo,
il tuo fiato d'aurora.
Sangue di primavera,
tutta la tetra trema
di un antico tremore.
Hai riaperto il dolore.
Sei la vita e la morte.
Sopra la terra nuda
sei passata leggera
come rondine o nube,
e il torrente del cuore
si è ridestato e irrompe
e si specchia nel cielo
e rispecchia le cose -
e le cose, nel cielo e nel cuore
soffrono e si contorcono
nell'attesa di te.
E' il mattino, è l'aurora,
sangue di primavera,
tu hai violato la terra.
La speranza si torce,
e ti attende ti chiama.
Sei la vita e la morte.
Il tuo passo è leggero.
25 marzo 1950
Rileggendo le poesie di Cesare Pavese mi sono soffermata su questa da subito.tuttavia ne ho cercata un'altra che potesse emozionarmi in egual misura, inutilmente.
RispondiEliminaQuesta mi ha letteralmente rapita e spero che vi arrivino le stesse emozioni
L'amico che dorme
Che diremo stanotte all'amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce.
Guarderemo l'amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell'antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo.
Il remoto silenzio soffrirà come un'anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell'ansia dell'alba,
che verrà d'improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio.
L'inutile luce svelerà il volto assorto del giorno.
Gli istanti taceranno.
E le cose parleranno sommesso
La poesia è l'essenza della sofferenza... non ricordo chi l'ha detto, ma sono d'accordo, perché sono una di quelle persone che mentre leggono i versi di una poesia riprovano gli stessi brividi e le stesse emozioni del poeta che l'ha scritta. Questo libricino mi manca e vado a comprarmelo.
RispondiEliminaTERRA ROSSA TERRA NERA DI CESARE PAVESE
RispondiEliminaUn uomo, meraviglioso, ed il suo territorio. Questa è la mia poesia, la prima di questo indispensabile volumetto, direi quasi un quaderno:
TERRA ROSSA TERRA NERA, CESARE PAVESE
Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi -
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione -
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d'agosto,
le olive dei tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.
27 ottobre 1945
Di salmastro e di terra
RispondiEliminaè il tuo sguardo. Un giorno
hai stillato di mare.
Ci sono state piante
al tuo fianco, calde,
sanno ancora di te.
L'agave e l'oleandro.
Tutto chiudi negli occhi.
Di salmastro e di terra
hai le vene, il fiato.
Bava di vento caldo,
ombre di solleone ‒
tutto chiudi in te.
Sei la voce roca
della campagna, il grido
della quaglia nascosta,
il tepore del sasso.
La campagna è fatica,
la campagna è dolore
Con la notte il gesto
del contadino tace.
Sei la grande fatica
e la notte che sazia.
Come la roccia e l'erba,
come terra, sei chiusa;
ti sbatti come il mare.
La parola non c'è
che ti può possedere
o fermare. Cogli
come la terra gli urti,
e ne fai vita, fiato
che carezza, silenzio.
Sei riarsa come il mare,
come un frutto di scoglio,
e non dici parole
e nessuno ti parla.
15 novembre '45
CESARE PAVESE
Pavese ha una sensibilità che mi sconvolge sempre. Questa poesia è tratta da Lavorare stanca - Poesie aggiunte
RispondiEliminaINCONTRO CESARE PAVESE
Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.
L'ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d'estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell'ombra, e d'un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.
Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell'infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l'alba su queste colline.
L'ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
8-15 agosto 1932
Ho due poesie da postare, entrambe si chiamano Estate e nessuna fa parte del libro in questione, ma sono belle ed emozionanti, non potevo ignorarle.
RispondiEliminaESTATE (1) - Cesare Estate
C'è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell'erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un'erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d'aria
e il prodigio sei tu. C'è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
Ascolti.
La parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.
ESTATE (2) - Cesare Pavese
EliminaÈ riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
e dal corpo raccolto, camminando per strada.
Ha guardato diritto tendendo la mano,
nell'immobile strada. Ogni cosa è riemersa.
Nell'immobile luce dei giorno lontano
s'è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
la sua semplice fronte, e lo sguardo d'allora
è riapparso. La mano si è tesa alla mano
e la stretta angosciosa era quella d'allora.
Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.
È tornata l'angoscia dei giorni lontani
quando tutta un'immobile estate improvvisa
di colori e tepori emergeva, agli sguardi
di quegli occhi sommessi. È tornata l'angoscia
che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
può lenire. Un immobile cielo s'accoglie
freddamente, in quegli occhi.
Fra calmo il ricordo
alla luce sommessa dei tempo, era un docile
moribondo cui già la finestra s'annebbia e scompare.
Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
della mano leggera ha riacceso i colori
e l'estate e i tepori sotto il viviclo cielo.
Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
non dan vita che a un duro inumano silenzio.
Nel 1936 Pavese pubblica una raccolta di poesie scritte durante il confino, rappresentazioni realistiche di situazioni o stati d'animo, intitolata Lavorare Stanca. Questa è la poesia che dà il titolo alla raccolta, scritta col suo caratteristico linguaggio colloquiale.
RispondiEliminaLAVORARE STANCA - CESARE PAVESE
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest'uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d'estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest'uomo, che giunge
per un viale d'inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c'è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s'incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c'è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest'uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
Altra poesia tratta da Lavorare Stanca. Se durante la prigionia Pavese sognava la libertà, una volta libero non riesce ad adattarsi alla vita normale. E' a disagio in mezzo agli altri, si sente additato e ne soffre. Si isola, quindi, e preferisce andarsene nei boschi con l'unico amico che non lo giudica e non ha pregiudizi: la sua cagna da caccia.
RispondiEliminaL'UOMO SOLO - CESARE PAVESE
L'uomo solo - che è stato in prigione - ritorna in prigione
ogni volta che morde in un pezzo di pane.
In prigione sognava le lepri che fuggono
sul terriccio invernale. Nella nebbia d'inverno
l'uomo vive tra muri di strade, bevendo
acqua fredda e mordendo in un pezzo di pane.
Uno crede che dopo rinasca la vita,
che il respiro si calmi, che ritorni l'inverno
con l'odore del vino nelle calda osteria,
e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,
fin che è dentro uno crede. Si esce fuori una sera,
e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
L'uomo solo osa entrare per bere un bicchiere
quando proprio si gela, e contempla il suo vino:
il colore fumoso, il sapore pesante.
Morde il pezzo di pane, che sapeva di lepre
in prigione, ma adesso non sa più di pane
né di nulla. E anche il vino non sa che di nebbia.
L'uomo solo ripensa a quei campi, contento
di saperli già arati. Nella sala deserta
sottovoce si prova a cantare. Rivede
lungo l'argine il ciuffo di rovi spogliati
che in agosto fu verde. Dà un fischio alla cagna.
E compare la lepre e non hanno più freddo.
Anche questa poesia non fa parte del libro in copertina, ma di Lavorare Stanca. Pavese la definisce poesia-racconto, e narra l'incontro del poeta col cugino-eroe che ha sì vissuto una vita entusiasmante nei mari del Sud, ma che nonostante tutto soffre della sua stessa solitudine.
RispondiEliminaLa divido in due parti.
I MARI DEL SUD - CESARE PAVESE 1)
Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo
- un grand'uomo tra idioti o un povero folle -
per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino... "
mi ha detto "...ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent'anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.
Vent'anni è stato in giro per il mondo.
Se n' andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.
%
I MARI DEL SUD - CESARE PAVESE 2)
EliminaMio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono cosi ".
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
"Ma la bestia" diceva "più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza".
Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno
scrivo sul manifesto: - Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo - e che la dicano
quei di Canelli ". Poi riprende l'erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell'altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
Ma quando gli dico
ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.
SEMPRE VIENI DAL MARE - Cesare Pavese
RispondiEliminaSempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all’urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s’odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose –
combatteremo sempre.
Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all’urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei più. Le braccia
si dibattono invano.
Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.
Cesare Pavese
HAI VISO DI PIETRA SCOLPITA - Cesare Pavese
RispondiEliminaHai viso di pietra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l’alba è silenzio.
E sei come le voci
della terra – l’urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo – le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.
Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov’è entrato una volta
ch’era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come al cortile antico
dove s’apriva l’alba.
PER TUTTA L'ESISTENZA – CESARE PAVESE
RispondiElimina(grazie a tittideluca)
Per tutta l’esistenza
ti avrò, fragilità,
nella stanchezza ardente del mio sangue.
Mi sei venuta accanto
colla promessa viva di un’aurora,
sconvolgendomi il sangue
come un grande tesoro
che si potrà conoscere
e possedere fino a sazietà.
Racchiudevi un mistero di dolore
e di gioia profonda, sconosciuta.
Oh un attimo solo di te
e mi saresti stata per la vita
un ricordo di sogno.
Ma non ti sei svelata.
Hai saputo il tuo gioco.
Sei ritornata a un tratto in mezzo al mondo
rinascondendo in te
il segreto degli occhi arrovesciati,
della tua bellezza più grande,
dell’attimo che gioia e sofferenza
si fanno un solo brivido.
Mi hai strappate le lacrime dal cuore.
E da quel giorno buio
dinanzi al tuo ricordo
per tutta l’esistenza
dovrò soffrire ancora
la febbre del mistero che ho perduto.
Cesare Pavese
[2 agosto 1928]
da “Prima di «Lavorare stanca» 1923-1930″, in “Cesare Pavese, Le poesie”, Einaudi Editore, 1998
Passerò per Piazza di Spagna – Cesare Pavese
RispondiEliminaSarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane –
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Sarai tu – ferma e chiara.
da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi Editore, 1951
(grazie a tittideluca)
AGONIA - CESARE PAVESE
RispondiEliminaGirerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo
accompagna il mattino.
Son lontani i mattini che avevo vent'anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le strisce di cielo.
Da domani la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo-una donna, padrona
di se stessa. La magra bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni
ora è come quel pianto non fosse mai stato
.
E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore - perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d'esser io: gettando un'occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.
OGNI GIORNO CHE PASSA E' UN RIANDARE - CESARE PAVESE
RispondiEliminaOgni giorno che passa è un riandare
tutta la storia grigia della vita.
Una donna che appena mi ha parlato
mi ha messo in cuore come un gran germoglio
gonfio di gioia.
È una gioia vedere tanti rami
verdissimi nel vento e tanti fiori
prepotenti, sboccianti, è una gran gioia
perché nel sangue pure è primavera.
A CHE SERVE PASSARE DEI GIORNI SE NON SI RICORDANO?
RispondiEliminaCesare Pavese
Provando dolore costantemente hai imparato a conviverci, hai creato un chip nella tua mente in grado di cancellare tutto ciò che ti ha creato dispiaceri.
E’ come se resettassi i ricordi per qualche tempo, ma durante il più profondo silenzio arriva qualcuno che ti sussurra all’orecchio ciò che ti colpì al cuore, riaprendo quella ferita ormai in fase di chiusura, distruggendo il tuo equilibrio, facendoti perdere il controllo.
Vorresti perdere la memoria?
Forse potresti dimenticare quel taglio da una certa prospettiva, ma dall’altra forse non potresti essere ciò che sei ora, uomo corazzato, armato di forza, guerriero.
Tu che hai imparato ad amare, a soffrire, a perdonare, hai imparato a vivere,
vorresti veramente dimenticare?
Non puoi scappare dal tuo destino, è una serie di eventi che ti porterà all’equilibrio.
Hai imparato a conoscere il mondo, hai capito quanto possa essere crudo anche se pieno di bellezza, ma tutto ciò ti servirà a sconfiggere con più coraggio e consapevolezza i tuoi demoni.
Allora guerriero tieni la spada con te perchè ti servirà, forse non adesso, ma prima o poi la impugnerai di nuovo e sarai più forte di prima, se avrai la tua memoria.
“A che serve passare dei giorni se non si ricordano?”
(grazie a RestaurArs)