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venerdì 22 marzo 2013

Poesie - Sylvia Plath


(Mondadori - 2013)


THE DISQUIETING MUSES - SYLVIA PLATH



Mother, mother, what illbred aunt 
Or what disfigured and unsightly 
Cousin did you so unwisely keep 
Unasked to my christening, that she 
Sent these ladies in her stead 
With heads like darning-eggs to nod 
And nod and nod at foot and head 
And at the left side of my crib?



Mother, who made to order stories 

Of Mixie Blackshort the heroic bear, 

Mother, whose witches always, always, 

Got baked into gingerbread, I wonder 

Whether you saw them, whether you said 
Words to rid me of those three ladies 
Nodding by night around my bed, 
Mouthless, eyeless, with stitched bald head. 

In the hurricane, when father's twelve 
Study windows bellied in 
Like bubbles about to break, you fed 
My brother and me cookies and Ovaltine 
And helped the two of us to choir: 
"Thor is angry: boom boom boom! 
Thor is angry: we don't care!" 
But those ladies broke the panes. 

When on tiptoe the schoolgirls danced, 
Blinking flashlights like fireflies 
And singing the glowworm song, I could 
Not lift a foot in the twinkle-dress 
But, heavy-footed, stood aside 
In the shadow cast by my dismal-headed 
Godmothers, and you cried and cried: 
And the shadow stretched, the lights went out. 

Mother, you sent me to piano lessons 
And praised my arabesques and trills 
Although each teacher found my touch 
Oddly wooden in spite of scales 
And the hours of practicing, my ear 
Tone-deaf and yes, unteachable. 
I learned, I learned, I learned elsewhere, 
From muses unhired by you, dear mother, 

I woke one day to see you, mother, 
Floating above me in bluest air 
On a green balloon bright with a million 
Flowers and bluebirds that never were 
Never, never, found anywhere. 
But the little planet bobbed away 
Like a soap-bubble as you called: Come here! 
And I faced my traveling companions. 

Day now, night now, at head, side, feet, 
They stand their vigil in gowns of stone, 
Faces blank as the day I was born, 
Their shadows long in the setting sun 
That never brightens or goes down. 
And this is the kingdom you bore me to, 
Mother, mother. But no frown of mine 
Will betray the company I keep.




Le muse inquietanti - Sylvia Plath

Mamma, mamma, quale zia maleducata 
o cugina sfigurata e repellente 
dimenticasti cosi sconsideratamente 
d'invitare al mio battesimo, che quella
al posto suo mandò queste signore 
dalla testa come un uovo da rammendo, 
per dondolarla e dondolarla ai piedi, 
al capo e a sinistra della culla? 

Mamma, tu che su ordinazione inventavi le avventure
di Mixie Blackshort, l'orsetto coraggioso, 
mamma, tu le cui streghe sempre sempre 
finivano cotte in forno insieme al panpepato, 
chissà se le hai viste, se hai detto parole 
per liberarmi da quelle tre signore
che annuivano di notte intomo al letto, 
senza bocca, senz'occhi, la testa calva tutta toppe? 

Quando ci fu l'uragano e nello studio 
di papà s'incurvarono le dodici finestre 
come bolle prossime a scoppiare, tu preparasti
a mio fratello e a me biscotti e Ovomaltina 
e ci insegnasti a cantare tutti in coro: 
"Thor è arrabbiato: bum bum bum! 
Thor è arrabbiato: che ce ne importa?" 
Ma quelle signore ruppero le vetrate. 

Quando a scuola le bambine eseguirono la danza
sulle punte e facendo lampeggiare le pile
cantarono la canzone delta lucciola, io non riuscivo 
a muovere un piede nella mia veste coi lustrini 
ma me ne stavo in disparte, goffa, 
nell'ombra gettata dalle mie madrine 
dalla lugubre testa, e tu piangevi, piangevi, 
e l'ombra si allungò, si spensero le luci. 

Mamma, mi mandavi a lezione di piano 
e lodavi i miei trilli e arabeschi, 
benché tutte le maestre giudicassero il mio tocco 
stranamente legnoso nonostante le scale 
e le ore di esercizio, e il mio orecchio 
stonato e, sì, refrattario alle lezioni. 
Ho imparato, ho imparato, ho imparato altrove, 
da muse non assunte da te, mamma cara. 

Un giomo mi sono svegliata e ti ho vista, mamma, 
che galleggiavi nell'azzurro più azzurro 
su una mongolfiera verde coperta di un milione 
di fiori e uccellini azzurri che mai mai 
si videro, in nessun luogo mai. 
Ma il piccolo pianeta volò via saltellando
come una bolla di sapone mentre tu gridavi: "Vieni, vieni!". 
E io restai sola davanti alle mie compagne di viaggio. 

Giomo e notte ora, al mio capo, al fianco, ai piedi, 
stanno a veglia con vesti di pietra, 
le facce vuote come il giomo in cui nacqui, 
le ombre lunghe nel sole calante 
che mai splende più vivo e mai tramonta. 
E questo è il regno a cui mi hai portato, 
mamma, mamma. Ma nessuna espressione del mio viso
tradirà la compagnia che frequento. 


Leggere questa poesia del 1957 è come entrare nella mente di Sylvia, tra le fate cattive dell'infanzia e le tristi ambizioni di sua madre, tra manichini alla de Chirico e demoni ormai padroni della sua anima. E' un'accusa rassegnata e crudele, che spiega bene come Sylvia sia consapevole del proprio destino. Si suiciderà sei anni dopo, coerente come sempre, coerente come tutti. Io mi innamoro quasi sempre dei poeti che leggo. Lei, invece, l'ho adottata.


“I am still so naïve; I know pretty much what I like and dislike; but please, don’t ask me who I am. A passionate, fragmentary girl, maybe?”

Sylvia Plath in Paris, 1956 (Gordon Lameyer)

Sylvia Plath (USA 1932- UK 1963)


Ho scattato questa foto il 5/8/13. E' stato difficile trovarla tra le erbacce.
Sylvia è sepolta a fianco della chiesa di Heptonstall (West Yorkshire, UK). La citazione EVEN AMIDST FIERCE FLAMES THE GOLDEN LOTUS CAN BE PLANTED (anche in mezzo alle fiamme feroci il loto dorato può essere piantato)  potrebbe venire dal Bhagavid-Gita (Sacra Scrittura Hindu), o più probabilmente dal libro Monkey di Wu Ch'Eng-En del 1550.

108 commenti:

  1. THE EDGE - SYLVIA PLATH

    The woman is perfected
    Her dead

    Body wears the smile of accomplishment,
    The illusion of a Greek necessity

    Flows in the scrolls of her toga,
    Her bare

    Feet seem to be saying:
    We have come so far, it is over.

    Each dead child coiled, a white serpent,
    One at each little

    Pitcher of milk, now empty
    She has folded

    Them back into her body as petals
    Of a rose close when the garden

    Stiffens and odors bleed
    From the sweet, deep throats of the night flower.

    The moon has nothing to be sad about,
    Staring from her hood of bone.

    She is used to this sort of thing.
    Her blacks crackle and drag.


    E questa è la traduzione:

    LIMITE - Sylvia Plath

    La donna ora è perfetta.
    Il suo corpo
    morto indossa il sorriso della compiutezza,
    l'illusione di una necessità greca
    fluisce nei volumi della sua toga,
    i suoi piedi
    nudi sembrano dire:
    Siamo arrivati fin qui, è finita.
    I bambini morti si sono acciambellati,
    ciascuno, bianco serpente,
    presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
    Lei li ha raccolti
    di nuovo nel suo corpo come i petali
    di una rosa si chiudono quando il giardino
    s'irrigidisce e sanguinano i profumi
    dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
    La luna, spettatrice nel suo cappuccio d'osso,
    non ha motivo di essere triste.
    È abituata a queste cose.
    I suoi neri crepitano e tirano.

    Questa terribile poesia è l'ultima di Sylvia Plath, scritta solo sei giorni prima di suicidarsi. E' il suo grido finale, forse una richiesta d'aiuto non compresa. L' 11 febbraio 1963 pone a fianco dei suoi bambini una tazza di latte e del pane imburrato, spalanca la finestra, li chiude a chiave e scende in cucina. Scrive un biglietto, "chiamate il medico ...", poi apre il gas e mette la testa nel forno. Tutto è compiuto, tutto è perfetto. La morte, inevitabile e irrevocabile, è la logica conclusione della sua poesia.

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    1. Quel terribile accenno ai bambini morti acciambellati e raccolti di nuovo nel suo grembo potrebbe far pensare all'intenzione di sopprimere anche i suoi figli, in una sorta di omicidio-suicidio liberatorio. Non essendo accaduto, fortunatamente, preferisco accodarmi all'interpretazione della critica inglese: Sylvia si riferisce alle sue poesie, che moriranno con lei. Da notare che quest'idea è alquanto profetica, dal momento che il suo ex-marito ed erede Ted Hughes ha distrutto una quantità imprecisata di poesie, ovviamente tutte quelle relative al loro rapporto di coppia: sarebbe stato importante accertare quanta influenza hanno avuto sulla depressione di Sylvia i tradimenti di lui.

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    2. L'odiato Ted Hughes.... da allora, mille mani hanno strappato le lettere hughes dalla tomba di Sylvia, finché l'amministrazione, stanca di sostituirle, si è stufata e le ha saldate in modo definitivo e incorruttibile.... non era giusto, non è giusto nemmeno per me, quel nome odioso andava estirpato per sempre.

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  2. Su Sylvia feci una tesi: ed erano trascorsi pochi anni dalla sua morte. Distinguo in lei due aspetti, uno meno amato, amaro e crudele, nel quale prorompe tutta la sua ferocia accusatoria, come in questi versi:
    "... ma sei un diavolo lo stesso,
    sei sempre l'uomo nero che
    azzannò e squarciò in due il mio cuore rosso.
    Ti seppellirono che avevo dieci anni.
    A venti cercai di morire
    e tornare, tornare, tornare da te.
    Anche le ossa potevano bastare..." (da Daddy - Papà)
    o peggio ancora come questi:
    "...Sono abitata da un grido.
    Di notte esce svolazzando
    in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare..." (da Elm - Olmo).
    E poi c'è un aspetto splendente di luce, come un prezioso raggio di sole che talvolta la rasserena, come in questi versi:
    " Passeggiavo per il giardino delle rose deserto
    nel parco pubblico; a casa sentivo il bisogno
    della presenza di una sola rosa per immaginare
    tutte le altre nel rigoglio dei colori......" (da Favola delle ladre di rododendri).
    A leggere le poesie di Sylvia, che tuttora anch'io chiamo per nome, si incorre in un'esperienza unica e sconvolgente: sapendone la fine, ogni parola e ogni verso acquistano un significato particolare, ed è fin troppo facile individuare accenni e riferimenti a quello che sarebbe successo. Ma questo è solo un ozioso discorso perfettamente inutile.

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  3. Seguendo il metodo del blog, aggiungo la mia prediletta e poco nota:

    Favola delle ladre di rododendri, di Sylvia Plath

    Passeggiavo per il giardino delle rose deserto
    nel parco pubblico; a casa sentivo il bisogno
    della presenza di una sola rosa per immaginare
    tutte le altre nel rigoglio dei colori.

    La testa di leone di pietra incassata nel muro
    gocciolava la sua saliva di un verde pigro
    nella vasca di pietra. Recisi
    un bocciolo arancione, lo misi in tasca. Quando

    ebbe aperto il suo arancione nel mio vaso
    e regredì a paonazzo sfatto, ne scelsi uno rosso,
    sgombrando la coscienza col dirmi che derubavo
    il parco di meno rosso di quanto non facesse l’appassire.

    La fragranza muschiata mi allietava il naso, il rosso l’occhio,
    il velluto dei petali le dita:
    riflettei sulla poesia che traevo in salvo
    dall’aria cieca, da una completa eclissi.

    Ma oggi, con un bocciolo giallo in mano,
    mi sono arrestata agli schianti improvvisi
    nel boschetto di alloro. Nessuno si avvicinava.
    Uno spasimo ha afferrato i cespugli dei rododendri:

    tre ragazze, intente, strappavano a bracciate frasche
    color ciliegia e rosa dai rododendri,
    ammassandole su giornali distesi.
    Coglievano sfrontate, non rallentate da alcun rimorso.

    E non hanno smesso sotto la mia occhiata severa.
    Ma mi son chiesta poi, la mia rosa un’accusa,
    che cosa si riduca a nulla: il furtarello di fronte alla rapina
    o la raffinatezza di fronte all’amore.

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    1. ecco l'originale:

      FABLE OF THE RHODODENDRON STEALERS - SYLVIA PLATH

      I walked the unwalked garden of rose-beds
      In the public park; at home felt the want
      Of a single rose present to imagine
      The garden's remainder in full paint.

      The stone lion-head set in the wall
      Let drop its spittle of sluggish green
      Into the stone basin. I snipped
      An orange bud, pocketed it. When

      It had opened its orange in my vase,
      Retrogressed to blowze, I next chose red;
      Argued my conscience clear which robbed
      The park of less red than withering did.

      Musk satisfied my nose, red my eye,
      The petals' nap my fingertips:
      I considered the poetry I rescued
      From blind air, from complete eclipse.

      Yet today, a yellow bud in my hand,
      I stalled at sudden noisy crashes
      From the laurel thicket. No one approached.
      A spasm took the rhododendron bushes:

      Three girls, engrossed, were wrenching full clusters
      Of cerise and pink from the rhododendron,
      Mountaining them on spread newspaper.
      They brassily picked, slowed by no chagrin,

      And wouldn't pause for my straight look.
      But gave me pause, my rose a charge,
      Whether nicety stood confounded by love,
      Or petty thievery by large.

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  4. Mi riferisco all'aspetto sereno di Sylvia in alcune circostanze: non sono d'accordo. Anche nelle rare poesie bucoliche è presente la fucilata finale: e fa più male. Ecco un esempio:

    Acquerello di Grandchester Meadows - Sylvia Plath

    Gli agnelli di primavera laggiù affollano lo stabbio. Nell'aria
    tacita, argentata come acqua in un bicchiere,
    nulla è grande o lontano.
    il toporagno squittisce nella sua foresta
    d'erbe e lo si sente.
    Minuscoli uccellini
    frullano vispi tra gli arbusti, con un bel colore.

    Stracci di nubi e salici cavi abitati dai gufi, inclinati
    sulla placida Granta, doppiano il loro mondo
    bianco e verde sotto l'acqua tersa
    e si cullano sul filo della corrente, capovolti.
    Il battelliere pianta in acqua il suo palo.
    Nella pozza di Byron
    i piccoli cigni mansueti scivolano tra due ali di stiance.

    E' un paesaggio su un piattino da bambini.
    Mucche pezzate fanno mulinare le mascelle e brucano
    trifoglio rosso o rosicchiano barbabietole
    turgide in un nimbo di ranuncoli smaltati dal sole.
    Tutt'intorno ai prati di un mite
    verde d'Arcadia
    il biancospino dalle bacche sanguigne cela nel bianco le sue punte.

    Buffo, vegetariano, il topo d'acqua
    sega una canna e lascia a nuoto il suo boschetto flessuoso,
    mentre gli studenti siedono o passeggiano
    la mano nella mano, in una sognante indolenza d'amore,
    avvolti in toga nera, ma ignari di come
    in un'aria così dolce
    il gufo calerà dalla sua torre, striderà il topo.
    19 febbraio 1959

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    1. ecco l'originale:

      WATERCOLOR OF GRANTCHESTER MEADOWS - SYLVIA PLATH

      There, spring lambs jam the sheepfold. In air
      Stilled, silvered as water in a glass
      Nothing is big or far.
      The small shrew chitters from its wilderness
      Of grassheads and is heard.
      Each thumb-sized bird
      Fits nimble-winged in thickets, and of good color.

      Cloudwrack and owl-hollowed willows slanting over
      The bland Granta double their white and green
      World under the sheer water
      And ride that flux at anchor, upside down.
      The punter sinks his pole.
      In Byron's pool
      Cat-tails part where the tame cygnets steer.

      It is a country on a nursery plate.
      Spotted cows revolve their jaws and crop
      Red clover or gnaw beetroot
      Bellied on a nimbus of sun-glazed buttercup.
      Hedging meadows of benign
      Arcadian green
      The blood-berried hawthorn hides its spines with white.

      Droll, vegetarian, the water rat
      Saws down a reed and swims from his limber grove,
      While the students stroll or sit,
      Hands laced, in a moony indolence of love ---
      Black-gowned, but unaware
      How in such mild air
      The owl shall stoop from his turret, the rat cry out.
      19 February 1959

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  5. Che bella, Sylvia Plath! E in quella foto sembra inossidabilmente felice... io non me la sento di proporre una sua poesia troppo triste. Scelgo questa, nella quale l'autrice sembra quasi immedesimarsi con le pietre-fossili che rimangono immobili nel tempo quando parla del trionfare del mondo floreale tutto intorno, per poi immedesimarsi con la transitorietà dei fiori, quando parla dell'immutabilità eterna delle pietre.

    LE PIETRE DEL CHILD’S PARK, di Sylvia Plath

    In un’aria senza sole, sotto pini
    di un verde che sembra quasi nero, un padre
    fondatore pose queste pietre lobate, contorte,
    a profilarsi nella penombra filtrata dalle foglie,
    nere come omeri o tibie carbonizzati

    di un gigante o di un animale
    estinto, venuto da un’altra
    era, anzi da un altro pianeta. Accanto
    al falò arancione e fucsia
    delle azalee, queste sacre

    pietre fanno la guardia a un riposo oscuro
    e mantengono intatta la loro forma mentre il sole
    muta le ombre della rosa e dell’iris -
    lunghe, corte, lunghe – nel giardino illuminato
    e suscita un incendio a fine giorno

    che dovrebbe appannare il pigmento
    delle azalee, ma che si estingue
    insieme a loro. Seguire la sfumatura della luce
    e la sua intensità a mezzanotte
    a mezzogiorno e sotto il lavorio

    delle stagioni significa conoscere
    il cuore immoto delle pietre:
    pietre che impiegano tutta l’estate per perdere
    il loro sogno del freddo invernale; pietre
    che si scaldano al centro solo quando
    si forma il gelo. Nessun grimaldello potrebbe
    sradicarle: la loro barba è sempre-
    verde. E neppure, una volta ogni cento
    anni, scendono a bere il fiume:
    non c’è sete che disturbi il letto di una pietra.

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    1. ecco l'originale, del 1958:

      CHILD’S PARK STONES – SYLVIA PLATH

      In sunless air, under pines
      Green to the point of blackness, some
      Founding father set these lobed, warped stones
      To loom in the leaf-filtered gloom
      Black as the charred knuckle-bones

      Of a giant or extinct
      Animal, come from another
      Age, another planet surely. Flanked
      By the orange and fuchsia bonfire
      Of azaleas, sacrosanct

      These stones guard a dark repose
      And keep their shapes intact while sun
      Alters shadows of rose and iris —-
      Long, short, long —- in the lit garden
      And kindles a day's-end blaze

      Colored to dull the pigment
      Of azaleas, yet burnt out
      Quick as they. To follow the light's tint
      And intensity by midnight
      By noon and throughout the brunt

      Of various weathers is
      To know the still heart of the stones:
      Stones that take the whole summer to lose
      Their dream of the winter's cold; stones
      Warming at core only as

      Frost forms. No man's crowbar could
      Uproot them: their beards are ever-
      Green. Nor do they, once in a hundred
      Years, go down to drink the river:
      No thirst disturbs a stone's bed.

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  6. Io scelgo una poesia tutta imperniata sulla nostalgia di un luogo caro dell'infanzia. Sylvia Plath a dieci anni amava giocare su questo scoglio, che nella fantasia infantile diventava nave da conquistare e poi far navigare... e il ricordo di questo periodo felice viene affrontato con grande speranza quindici anni dopo, ma la delusione è infinita. O forse è pessimo il confronto con la felicità spensierata di allora.

    SCOGLIO VERDE, BAIA DI WINTHROP, di Sylvia Plath

    Non c’è magra scusa che possa mascherare
    il catrame raggrumato alla linea di marea , il pontile in rovina.
    Avrei dovuto immaginarlo.

    Quindici anni tra me e la baia
    hanno arricchito il ricordo, ma cancellato la scena di un tempo
    raffazzonando questa vista

    scadente che mette fine
    alla mia promessa di un idillio. L’azzurro è consunto:
    è una proprietà meschina,

    nemica, ora. Il grande scoglio verde
    che tante volte ci fece da nave e casa è nero
    di appiccicume catramoso

    e littorine, rattrappito in dimensioni
    comuni. Le grida degli ingordi gabbiani sono flebili
    nel viavai degli aeroplani

    del Logan Airport sull’altra riva.
    I gabbiani roteano grigi sotto l’ombra di un volo più metallico.
    La perdita annulla il profitto.

    A meno di non fare un favore a questo porto
    luccicante e sciatto facendo finta che non esista, o mento
    indorando una bruttura,

    o me la cavo incolpando il tempo
    del rimpicciolimento dello scoglio, della schiuma insozzata,
    della zotica accoglienza.

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    1. ecco l'originale, del 1958:

      GREEN ROCK, WINTHROP BAY – SYLVIA PLATH

      No lame excuses can gloss over
      Barge-tar clotted at the tide-line, the wrecked pier.
      I should have known better.

      Fifteen years between me and the bay
      Profited memory, but did away with the old scenery
      And patched this shoddy

      Makeshift of a view to quit
      My promise of an idyll. The blue's worn out:
      It's a niggard estate,

      Inimical now. The great green rock
      We gave good use as ship and house is black
      With tarry muck

      And periwinkles, shrunk to common
      Size. The cries of scavenging gulls sound thin
      In the traffic of planes

      From Logan Airport opposite.
      Gulls circle gray under shadow of a steelier flight.
      Loss cancels profit.

      Unless you do this tawdry harbor
      A service and ignore it, I go a liar
      Gilding what's eyesore,

      Or must take loophole and blame time
      For the rock's dwarfed lump, for the drabbled scum,
      For a churlish welcome.

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  7. allegria allegria!!!! help

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  8. Bene,sono arrivata in ritardo ma noto con piacere che ancora nessuno ha postato la mia poesia preferita, adoro questa poetessa affetta da disturbo bipolare,distante dal Mondo che avvertiva estraneo e perennemente alla ricerca di una via di fuga al suo mal di vivere che a soli diciassette anni la porta a scrivere" ho paura di crescere,ho paura di sposarmi,voglio essere libera"

    io sono verticale-il dialogo con il sogno

    Io sono verticale ma preferirei essere orizzontale
    Non sono un albero con radici nel suolo
    succhiante minerali e amore materno
    cosi’ da poter brillare di foglie a ogni marzo,
    ne’ sono la belta’ di un’aiuola
    ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
    senza sapere che presto dovro’ perdere i miei petali.
    Confronto a me, un albero e’ immortale
    e la cima di un fiore, non alta, ma piu’ clamorosa:
    dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

    Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
    alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
    Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
    A volte io penso che mentre dormo
    forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto -
    con i miei pensieri andati in nebbia.
    Stare sdraiata e’ per me piu’ naturale.
    Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
    e saro’ utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
    finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me"
    Sylvia Plath osserva la vita da lontano, quasi da un punto ultraterreno;sa di non essere forte e immortale come un albero, né bella come un fiore.,non possiede radici che la tengono ben salda al terreno come tutte le altre donne, ma sarà sempre accompagnata da una sensazione di estraneità.
    Se fosse orizzontale, sarebbe come tutte le altre donne ,con radice ben fisse a terra invece si sente verticale, imperfetta. e piena di manchevolezze.

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    1. Ted Hughes,marito di Sylvia, pubblicò una bellissima poesia a lei dedicata troppi anni dopo il suicidio di sua moglie, Si erano amati e massacrati, lui aveva preferito un’altra donna, Assia, e l’aveva sposata (dopo sei anni si suicidò anche lei, e Hughes allora sposò un’infermiera, che gli sopravvisse), quindi per tutto il resto della vita fu sospettato di crudeltà mentale e il fatto che avesse eliminato alcune pagine dei diari di Sylvia fu un altro elemento alla disapprovazione pubblica.
      ....e Sylvia Plath quella sera sigillò la cucina per non mettere in pericolo i bambini addormentati, mise accanto ai loro letti un vassoio su cui aveva preparato latte e toast imburrati. Aveva trent’anni, due figli piccoli, grandi poesie, un romanzo, un futuro libero, era bellissima e geniale e non ce la faceva più....

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    2. Ecco l'originale:

      I AM VERTICAL - SYLVIA PLATH

      But I would rather be horizontal.
      I am not a tree with my root in the soil
      Sucking up minerals and motherly love
      So that each March I may gleam into leaf,
      Nor am I the beauty of a garden bed
      Attracting my share of Ahs and spectacularly painted,
      Unknowing I must soon unpetal.
      Compared with me, a tree is immortal
      And a flower-head not tall, but more startling,
      And I want the one's longevity and the other's daring.

      Tonight, in the infinitesimal light of the stars,
      The trees and the flowers have been strewing their cool odors.
      I walk among them, but none of them are noticing.
      Sometimes I think that when I am sleeping
      I must most perfectly resemble them --
      Thoughts gone dim.
      It is more natural to me, lying down.
      Then the sky and I are in open conversation,
      And I shall be useful when I lie down finally:
      Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.
      28 March 1961

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    3. Maria Grazia20/12/13, 17:44

      Sylvia esprime nei suoi versi molto di più di una sofferenza esistenziale: esprime il senso del disagio che prova, come essere umano oltre che come donna, nel vedersi costretta a vivere diversamente da come vorrebbe e saprebbe, essendo in totale disarmonia col mondo intero e soprattutto con se stessa. In "Io sono verticale" esprime appunto questo desiderio - irrealizzabile - di vivere in condizioni diverse.

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  9. Scommetto che siete curiosi di leggere la poesia dedicata dal marito a Sylvia e allora eccomi pronta
    Ted Hughes Lettera di compleanno
    Più alta / di quanto non saresti più stata. Ondeggiavi così snella / che le tue lunghe, perfette gambe americane / sembravano salire su su su. Quella mano divampante, / quelle lunghe dita danzanti, di eleganza scimmiesca. / E il viso: una palla tesa di gioia. / Ti vedo là, più chiara, più vera / che in tutti gli anni nella sua ombra / come se ti avessi visto quell’unica volta e poi più. / La cascata sciolta dei capelli – quella molle cortina / sul viso, sulla cicatrice. E il tuo viso / una gommosa palla di gioia / intorno alla bocca dalle labbra africane, ridente, / dipinte di cremisi. E i tuoi occhi / strizzati nel viso, succo di diamanti, / incredibilmente luminosi, come succo di lacrime / che potevano anche essere lacrime di gioia, una spremuta di gioia. / Volevi strabiliarmi / con il tuo brio."

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  10. Come un quadro di Segantini io vedo queste donne a ridosso del mare, fonte di sostentamento e di ansia. Mi adeguo allo stile del blog, e insomma questa è la mia poesia, odora di alghe morte, di salsedine. Chi ama il mare sa bene cosa intendo.

    The met-menders, by Sylvia plath

    Halfway up from the little harbor of sardine boats,
    Halfway down from groves where the thin, bitter almond pips
    Fatten in green-pocked pods, the three net-menders sit out,
    Dressed in black, everybody in mourning for someone.
    They set their stout chairs back to the road and face the dark
    Dominoes of their doorways.

    Sun grains their crow-colors,
    Purples the fig in the leaf's shadow, turns the dust pink.
    On the road named for Tomas Ortunio, mica
    Winks like money under the ringed toes of the chickens.
    The houses are white as sea-salt goats lick from the rocks.

    While their fingers work with the coarse mesh and the fine
    Their eyes revolve the whole town like a blue and green ball.
    Nobody dies or is born without their knowing it.
    They talk of bride-lace, of lovers spunky as gamecocks.

    The moon leans, a stone madonna, over the lead sea
    And the iron hills that enclose them. Earthen fingers
    Twist old words into the web-threads:

    Tonight may the fish
    Be a harvest of silver in the nets, and the lamps
    Of our husbands and sons move sure among the low stars.

    Le aggiustatrici di reti, di Sylvia Plath

    A metà salita dal porticciolo coi pescherecci di sardine,
    a metà discesa dai mandorleti dove i sottili frutti amari
    ingrassano nei baccelli butterati di verde, le tre aggiustatrici di reti
    siedono all'aperto, nerovestite, tutte in lutto per qualcuno.
    Hanno messo le sedie tozze col dorso alla strada e sono rivolte alle nere
    tessere di domino delle porte aperte.

    Il sole dà una grana ai loro corvini,
    tinge di viola il fico all'ombra della foglia, rende rosa la polvere.
    Sulla strada che porta il nome di Tomas Ortunio, la mica
    occhieggia come monetine sotto le zampe inanellate dei polli.
    Le case sono bianche come il salino che le capre leccano sulle rocce.

    Mentre le loro dita lavorano le maglie grosse e quelle fini
    gli occhi fanno ruotare tutto il paese come una sfera azzurra e verde.
    Nessuno muore o nasce a loro insaputa.
    Parlano di pizzi da sposa, di innamorati arditi come galletti.

    La luna si china, madonna di pietra, sul mare di piombo
    e sulle colline ferrigne che le racchiudono. Dita di terracotta
    intrecciano parole antiche ai fili delle maglie:

    "Che questa notte i pesci
    siano una messe d'argento nelle reti, e le lampare
    dei nostri mariti e figli muovano sicure tra le stelle basse."

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  11. E poi un'altra. Il mare d'autunno. Sono con lei sulla battigia, sento con lei la dolcezza della tristezza. Io amo questa donna.

    Magnolia Shoals, by Sylvia Plath

    Up here among the gull cries
    we stroll through a maze of pale
    red-mottled relics, shells, claws

    as if it were summer still.
    That season has turned its back.
    Though the green sea gardens stall,

    bow, and recover their look
    of the imperishable
    gardens in an antique book

    or tapestries on a wall,
    leaves behind us warp and lapse.
    The late month withers, as well.

    Below us a white gull keeps
    the weed-slicked shelf for his own,
    hustles other gulls off. Crabs

    rove over his field of stone;
    mussels cluster blue as grapes:
    his beak brings the harvest in.

    The watercolorist grips
    his brush in the stringent air.
    The horizon’s bare of ships,

    the beach and the rocks are bare.
    He paints a blizzard of gulls,
    wings drumming in the winter.
    October 1959

    Banchi di sabbia a Magnolia, di Sylvia Plath

    Quassù tra le grida dei gabbiani
    passeggiamo in un labirinto di resti
    pallidi screziati di rosso, gusci, chele

    come se fosse ancora estate.
    Ha voltato le spalle, quella stagione.
    Anche se i verdi giardini del mare si arrestano,

    fanno un inchino e riprendono l'aspetto
    degli imperituri
    giardini di un libro antico

    o in arazzi alla parete,
    dietro di noi le foglie, sformate, vengon meno.
    Anche il mese inoltrato appassisce.

    Sotto di noi un gabbiano bianco si è impadronito
    della spiantata lucida di alghe,
    ne caccia via gli altri gabbiani. I granchi

    vagano per il suo campo di pietra;
    le cozze sono grappoli di uva nera:
    il suo becco ne fa vendemmia.

    L'acquerellista stringe
    il pennello nell'aria pungente.
    L'orizzonte è spoglio di navi,

    la spiaggia e gli scogli sono spogli.
    l'uomo dipinge una tormenta di gabbiani,
    un rullo d'ali che annuncia l'inverno.

    Ottobre 1959

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  12. Ho pensato molto prima di proporla, eppure, essendo stata anticipata da Giuseppe, eccola qui. E' una poesia terribile, lo so.

    ELM - SYLVIA PLATH
    For Ruth Fainlight

    I know the bottom, she says. I know it with my great tap root:
    It is what you fear.
    I do not fear it: I have been there.

    Is it the sea you hear in me,
    Its dissatisfactions?
    Or the voice of nothing, that was you madness?

    Love is a shadow.
    How you lie and cry after it.
    Listen: these are its hooves: it has gone off, like a horse.

    All night I shall gallup thus, impetuously,
    Till your head is a stone, your pillow a little turf,
    Echoing, echoing.

    Or shall I bring you the sound of poisons?
    This is rain now, the big hush.
    And this is the fruit of it: tin-white, like arsenic.

    I have suffered the atrocity of sunsets.
    Scorched to the root
    My red filaments burn and stand,a hand of wires.

    Now I break up in pieces that fly about like clubs.
    A wind of such violence
    Will tolerate no bystanding: I must shriek.

    The moon, also, is merciless: she would drag me
    Cruelly, being barren.
    Her radience scathes me. Or perhaps I have caught her.

    I let her go. I let her go
    Diminished and flat, as after radical surgery.
    How your bad dreams possess and endow me.

    I am inhabited by a cry.
    Nightly it flaps out
    Looking, with its hooks, for something to love.

    I am terrified by this dark thing
    That sleeps in me;
    All day I feel its soft, feathery turnings, its malignity.

    Clouds pass and disperse.
    Are those the faces of love, those pale irretrievables?
    Is it for such I agitate my heart?

    I am incapable of more knowledge.
    What is this, this face
    So murderous in its strangle of branches?--

    Its snaky acids hiss.
    It petrifies the will. These are the isolate, slow faults
    That kill, that kill, that kill.
    19 April 1962

    OLMO - SYLVIA PLATH
    per Ruth Fainlight

    OLMO

    Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossaradice:
    è quello di cui tu hai paura.
    Io non ne ho paura: ci sono stata.

    E’ il mare che senti in me,
    le sue insoddisfazioni?
    O la voce del nulla, che era la tua pazzia?

    L’amore è un’ombra.
    Come lo insegui con menzogne e pianti.
    Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via, come un cavallo.

    Per tutta la notte galopperò così, impetuosamente,
    finché la tua testa non sarà una pietra, il tuo cuscino una zolla,
    rimandando echi ed echi.

    O vuoi che ti porti il suono dei veleni?
    Ecco, questa è la pioggia ora, questo grande azzittirsi.
    E questo è il suo frutto: bianco-stagno, come arsenico.

    Ho patito l’atrocità dei tramonti.
    Bruciati fino alla radice
    i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro.

    Ora mi rompo in pezzi che volano intorno come clave.
    Un vento di tale violenza
    non tollera neutralità: devo urlare.

    Anche la luna è spietata: vuole trascinarmi
    crudelmente, lei che è sterile.
    Il suo splendore mi folgora. O forse l’ho catturata.

    La lascio andare. La lascio andare
    diminuita e piatta, come dopo un intervento radicale.
    Come mi possiedono e mi colmano i tuoi brutti sogni.

    Sono abitata da un grido.
    Di notte esce svolazzando
    in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.

    Mi terrorizza questa cosa scura
    che dorme in me;
    tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.

    Le nuvole passano e si disperdono
    Sono quelli i volti dell’amore, quelle pallide irrecuperabilità?
    E’ per questo che agito il mio cuore?

    Sono incapace di maggiore conoscenza.
    Che cos’è questo, questa faccia
    così assassina nel suo strangolio di rami?

    Sibilano i suoi acidi serpentini.
    Pietrificano la volontà. Queste sono le colpe isolate e lente
    che uccidono e uccidono e uccidono.
    19 aprile 1962

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    1. Olmo è una delle ultime poesie di Sylvia, la cui vita è stata segnata dall'assenza della figura paterna, mancato quando lei aveva appena otto anni.
      Cerca di compensare il vuoto di questa assenza,con la ricerca spasmodica di un amore protettivo e di un'accettazione incondizionata ma allorquando il rapporto si sbriciolerà ecco trapelare l'ombra della morte .
      L’amore si presenta nelle fattezze di Ted Hughes, tutto sembra dare risposta al suo bisogno di compimento. Ma si sbriciolerà presto, dimostrando la debolezza di un tradimento.
      Sylvia canta lo strazio di un abbandono che somma ferite e apre cicatrici mai rimarginate.
      I primi versi di Olmo delineano un destino di sogno e di visione: «Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice: / è quello di cui tu hai paura./ Io non ne ho paura: ci sono stata».
      Il fondo di Sylvia Plath è un intaglio di ombre, come l’eco nero finale e profondo di un passaggio da combattere, «Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti saporiti, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo»
      Ecco descritta la sua profonda sofferenza «è il mare che senti in me, le sue insoddisfazioni? o la voce del nulla, che era la tua pazzia? L’amore è un’ombra. Come lo insegui con menzogne e pianti. Ascolta: ecco i suoi zoccoli: se n’è andato, come un cavallo». «Ho patito l’atrocità dei tramonti. Bruciati fino alla radice i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro».

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  13. In via preventiva chiedo scusa alle mie amiche ragazze perché non è mia intenzione fare dell'ironia. Invece, essendo abituato al concetto di zitella espresso da Emily Dickinson, mi è sembrato molto interessante proporre questa splendida poesia sullo stesso argomento. Insomma, è il non voler più combattere che diventa la scelta preferibile di vita. Meglio l'inverno dei sensi.

    ZITELLA, SYLVIA PLATH
    E così questa particolare ragazza
    In una cerimoniosa passeggiata d'aprile
    Col suo più recente pretendente
    Si trovò all'improvviso oltremodo sconvolta
    Dalla sfrenata babele degli uccelli,
    Da quel mare di foglie.
    In preda a questo tumulto, osservava
    I gesti del suo innamorato che sbilanciavano l'aria.
    E il proprio passo vagante ineguale
    In quel solitario rigoglio di felci e fiori.
    Giudicava i petali in scompiglio,
    E la stagione in generale, sciatta.
    Come desiderò allora l'inverno!-
    Scrupolosamente austero nel suo ordine
    Di bianco e nero
    Ghiaccio e roccia, ogni senso nei suoi limiti,
    E la gelida disciplina del cuore
    Esatta come fiocco di neve.
    Ma ecco- un germogliare
    Anormale abbastanza da mettere in scompiglio
    Le sue cinque regali facoltà -
    Un tradimento da non tollerare. Sì, impazziscano pure
    Gli idioti nel manicomio primavera:
    Lei se ne tirò subito fuori.
    E mise tutt'intorno alla sua casa
    Tale una barricata di spine e impedimenti
    Contro quella stagione sediziosa
    Che nessun uomo all'assalto poté sperare d'infrangerla
    Per anatemi, pugni o terrore;
    E nemmeno per amore.


    SPINSTER, SYLVIA PLATH
    Now this particular girl
    During a ceremonious April walk
    With her latest suitor
    Found herself, of a sudden, intolerably struck
    By the birds' irregular babel
    And the leaves' litter.

    By this tumult afflicted, she
    Observed her lover's gestures unbalance the air,
    His gait stray uneven
    Through a rank wilderness of fern and flower.
    She judged petals in disarray,
    The whole season, sloven.

    How she longed for winter then! --
    Scrupulously austere in its order
    Of white and black
    Ice and rock; each sentiment within border,
    And heart's frosty discipline
    Exact as a snowflake.

    But here -- a burgeoning
    Unruly enough to pitch her five queenly wits
    Into vulgar motley --
    A treason not to be borne. Let idiots
    Reel giddy in bedlam spring:
    She withdrew neatly.

    And round her house she set
    Such a barricade of barb and check
    Against mutinous weather
    As no mere insurgent man could hope to break
    With curse, fist, threat
    Or love, either.

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  14. Hello there!
    In the summer of 1956 Hughes married the poet Sylvia Plath and for their honeymoon they went to Spain and watched a bullfight. As she wrote in a letter to her mother:
    "I’d imagined that the matador danced around with the dangerous bull, then killed him instantly. Not so… The killing isn’t even neat, and with all the chances against it, we felt disgusted and sickened by such brutality".

    Plath wrote a poem about her bullfight experience, in which a picador was injured by the bull:

    THE GORING
    Arena dust rusted by four bulls’ blood to a dull redness,
    The afternoon at a bad end under the crowd’s truculence,
    The ritual death each time botched among dropped capes, ill-judged stabs,
    The strongest will seemed a will towards ceremony. Obese, dark-
    Faced in his rich yellows, tassels, pompons, braid, the picador
    Rode out against the fifth bull to brace his pike and slowly bear
    Down deep into the bent bull-neck. Cumbrous routine, not artwork.
    Instinct for art began with the bull’s horn lofting in the mob’s
    Hush a lumped man-shape. The whole act formal, fluent as a dance.
    Blood faultlessly broached redeemed the sullied air, the earth’s grossness.

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    1. Ecco la traduzione.

      Ciao a tutti!
      Nell'estate del 1956 Hughes sposò la poetessa Sylvia Plath e per la loro luna di miele si recarono in Spagna a guardare una corrida. Ecco cosa scrisse Sylvia in una lettera a sua madre:
      "Avevo immaginato che il matador facesse una specie di balletto col toro pericoloso, per poi ucciderlo all'istante. Ma non è così ... L'uccisione non è certamente un evento ordinato e pulito, e con tutte le possibilità contrarie. Ci siamo sentiti disgustati e nauseati da tale brutalità".

      Plath scrisse una poesia su questa sua esperienza-corrida, nella quale il toro ferì un picador.

      L'INCORNATA - SYLVIA PLATH
      La polvere dell'arena arrugginita dal sangue di quattro tori fino a un rosso spento,
      il pomeriggio che si chiudeva male sotto la truculenza della folla,
      la morte rituale ogni volta rabberciata tra mulete cadute, colpi mal calcolati,
      la volontà più forte sembrava volontà di cerimonia. Obeso, scuro
      in volto nei suoi gialli sontuosi, nappe, pompon, galloni, il picador
      mosse il cavallo verso il quinto toro, pronto ad imbracciare la picca e lentamente
      conficcarla nel collo curvo della bestia. Greve pantomima, non opera d'arte.
      L'istinto per l'arte ebbe inizio con il corno del toro che sollevava nel silenzio
      della plebe una goffa sagoma d'uomo. L'intero atto formale, fluido come una danza.
      Il sangue spillato impeccabilmente fu redenzione dell'aria insozzata,
      della volgarità della terra.

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    2. Di mio, aggiungo che questa poesia è magnifica. Ha risvegliato un ricordo accantonato, una corrida a cui assistemmo, inopinatamente, anni fa. Il torero fu incornato e gettato in aria dal toro, calpestato e trascinato. E noi ne fummo contenti. Mai più nessuno di noi andrà a vedere una corrida.

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  15. here is my favorite:

    The Beekeeper's Daughter by Sylvia Plath

    A garden of mouthings. Purple, scarlet-speckled, black
    The great corollas dilate, peeling back their silks.
    Their musk encroaches, circle after circle,
    A well of scents almost too dense to breathe in.
    Hieratical in your frock coat, maestro of the bees,
    You move among the many-breasted hives,

    My heart under your foot, sister of a stone.

    Trumpet-throats open to the beaks of birds.
    The Golden Rain Tree drips its powders down.
    In these little boudoirs streaked with orange and red
    The anthers nod their heads, potent as kings
    To father dynasties. The air is rich.
    Here is a queenship no mother can contest ---

    A fruit that's death to taste: dark flesh, dark parings.

    In burrows narrow as a finger, solitary bees
    Keep house among the grasses. Kneeling down
    I set my eyes to a hole-mouth and meet an eye
    Round, green, disconsolate as a tear.
    Father, bridegroom, in this Easter egg
    Under the coronal of sugar roses

    The queen bee marries the winter of your year.


    and, with Easter eggs, Happy Easter to all, Nick

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    1. Ecco la traduzione:

      LA FIGLIA DELL'APICULTORE - SYLVIA PLATH

      Un giardino di bocche frementi. Viola, picchiettate di scarlatto, nere
      le grandi corolle si dilatano, arrovesciando le loro sete.
      Il loro muschio dilaga, cerchio dopo cerchio,
      un pozzo di profumi troppo densi quasi per il respiro.
      Ieratico nella tua redingote, gran maestro delle api,
      ti muovi fra gli alveari dai molti seni,

      il mio cuore sotto il tuo piede, sorella di una pietra.

      Gole a tromba si aprono al becco degli uccelli.
      L'Albero Pioggiadoro stilla le sue polveri.
      In questi piccoli boudoir screziati di rosso e arancio
      le antere inchinano il capo, potenti come re
      a generare dinastie. L'aria è densa di odori.
      Ecco una sovranità di regina che nessuna madre può disputare--

      un frutto che è morte assaggiare: polpa scura, scure scorze.

      In cunicoli stretti come un dito, api solitarie
      stanno di casa tra l'erba. Inginocchiata,
      accosto l'occhio a una bocca e incontro un occhio
      tondo, verde, affranto come una lacrima.
      Padre, sposo, in questo uovo pasquale
      sotto la ghirlanda di rose zuccherine

      l'ape regina sposa l'inverno del tuo anno.

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  16. Ci sono scrittori, soprattutto poeti, che lasciano un segno indelebile nell'anima, per mille motivi: ognuno ha i suoi. Io ho questi:

    Poppies In July – Sylvia Plath

    Little poppies, little hell flames,
    Do you do no harm?

    You flicker. I cannot touch you.
    I put my hands among the flames. Nothing burns .

    And it exhausts me to watch you
    Flickering like that, wrinkly and clear red, like the skin of a mouth.

    A mouth just bloodied.
    Little bloody skirts!

    There are fumes I cannot touch.
    Where are your opiates, your nauseous capsules?

    If I could bleed, or sleep! --
    If my mouth could marry a hurt like that!

    Or your liquors seep to me, in this glass capsule,
    Dulling and stilling.

    But colorless. Colorless.
    20 July 1962

    Papaveri in luglio – Sylvia Plath

    Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
    Non fate male?

    Tremolate. Non riesco a toccarvi.
    Metto le mani tra le fiamme. Nessun bruciore.

    E mi spossa il guardarvi
    Così tremolanti, grinzosi e rosso vivo, come la pelle di una bocca.

    Una bocca insanguinata da poco.
    Gonnelline sanguinanti!

    Ci sono fumi che non riesco a toccare.
    Dove sono i vostri oppiacei, le vostre capsule nauseanti?

    Potessi sanguinare, o dormire!—
    Potesse la mia bocca sposare una ferita come quella!

    O i vostri liquori stillare fino a me, in questa capsula di vetro,
    E ottundere e placare.

    Ma senza colore. Senza colore.
    20 luglio 1962

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  17. ... e questi:

    Poppies in October – Sylvia Plath

    Even the sun-clouds this morning cannot manage such skirts.
    Nor the woman in the ambulance
    Whose red heart blooms through her coat so astoundingly --

    A gift, a love gift
    Utterly unasked for
    By a sky

    Palely and flamily
    Igniting its carbon monoxides, by eyes
    Dulled to a halt under bowlers.

    O my God, what am I
    That these late mouths should cry open
    In a forest of frost, in a dawn of cornflowers.
    27 October 1962

    Papaveri in ottobre – Sylvia Plath

    Neppure le nuvole assolate stamattina riescono a dare gonnelle come queste.
    Neppure la donna nell’ambulanza
    Il cui cuore rosso fiorisce così stupefacente dal cappotto—

    Un dono, un dono d’amore
    Del tutto non richiesto
    Da un cielo

    Che pallido e infiammato
    Accende i suoi monossidi di carbonio, da occhi
    Che si arrestano torpidi sotto le bombette.

    Oh mio Dio, che cosa sono io
    Perché queste bocche tardive si spalanchino a un grido
    In una foresta di gelo, in un’alba di fiordalisi?
    27 ottobre 1962

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  18. Ma complimenti! Non pensavo di trovare così tanti commenti e tante idee! Mi sono iscritta e intendo cominciare a muovermi in fretta. Per ora dico solo che ho una profondissima ammirazione per Sylvia, che considero la più singolare voce poetica di tutto il novecento. A molto presto, ciao a tutti!

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  19. eccomi, con la poesia che rappresenta il fantasma terrificante di ogni donna. Sylvia la studia, la odia, e non riesce a togliersela dai pensieri con l'unica e amara soddisfazione di saperla prigioniera per lo stesso e forte legame reciproco ed esclusivo che le tiene avvinghiate. Sylvia la considera una rivale, non una donna, escludendo così ogni sentimento di solidarietà femminile.

    The Rival - Sylvia Plath (July 1961)

    If the moon smiled, she would resemble you.
    You leave the same impression
    Of something beautiful, but annihilating.
    Both of you are great light borrowers.
    Her O-mouth grieves at the world; yours is unaffected,

    And your first gift is making stone out of everything.
    I wake to a mausoleum; you are here,
    Ticking your fingers on the marble table, looking for cigarettes,
    Spiteful as a woman, but not so nervous,
    And dying to say something unanswerable.

    The moon, too, abuses her subjects,
    But in the daytime she is ridiculous.
    Your dissatisfactions, on the other hand,
    Arrive through the mailslot with loving regularity,
    White and blank, expansive as carbon monoxide.

    No day is safe from news of you,
    Walking about in Africa maybe, but thinking of me.
    *************
    La Rivale - Sylvia Plath (Luglio 1961)

    Se la luna sorridesse, ti somiglierebbe.
    Lasci la stessa impressione
    di una grande bellezza, ma annientatrice.
    Siete tutte e due grandi accaparratrici di luce.
    La sua bocca ad O piange per il mondo; la tua resta immutata,

    e il tuo primo dono è di trasformare in pietra ogni cosa.
    Mi sveglio ad un mausoleo; tu sei qui,
    tamburelli le dita sul tavolo di marmo, cerchi le sigarette,
    malevola come una donna, ma non così apprensiva,
    muori dalla voglia di dire qualcosa che non ammetta risposta.

    Anche la luna umilia i suoi sudditi,
    ma di giorno è ridicola.
    Le tue insoddisfazioni, invece,
    arrivano nella cassetta della posta con amorosa regolarità,
    bianche e vacue, espansive come monossido di carbonio.

    Non c'è giorno al riparo da tue notizie,
    sei a spasso per l'Africa, magari, ma pensi a me.

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  20. ma come, hai cancellato quei due magnifici commenti-spam americani (o inglesi)? ne ricevi parecchi? li selezioni tutti o si filtrano in qualche maniera automaticamente?

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  21. sì, ne ricevo tanti, e sono una infame seccatura. Qualcuno sfugge all'antispam.

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  22. E questa, che mi decido a proporre dopo tanti ripensamenti, è la terribile poesia dedicata a suo padre Otto, di origine tedesca (come pure tedesco era il suo carattere).

    DADDY - SYLVIA PLATH

    You do not do, you do not do
    Any more, black shoe
    In which I have lived like a foot
    For thirty years, poor and white,
    Barely daring to breathe or Achoo.

    Daddy, I have had to kill you.
    You died before I had time--
    Marble-heavy, a bag full of God,
    Ghastly statue with one gray toe
    Big as a Frisco seal

    And a head in the freakish Atlantic
    Where it pours bean green over blue
    In the waters off beautiful Nauset.
    I used to pray to recover you.
    Ach, du.

    In the German tongue, in the Polish town
    Scraped flat by the roller
    Of wars, wars, wars.
    But the name of the town is common.
    My Polack friend

    Says there are a dozen or two.
    So I never could tell where you
    Put your foot, your root,
    I never could talk to you.
    The tongue stuck in my jaw.

    It stuck in a barb wire snare.
    Ich, ich, ich, ich,
    I could hardly speak.
    I thought every German was you.
    And the language obscene

    An engine, an engine
    Chuffing me off like a Jew.
    A Jew to Dachau, Auschwitz, Belsen.
    I began to talk like a Jew.
    I think I may well be a Jew.

    The snows of the Tyrol, the clear beer of Vienna
    Are not very pure or true.
    With my gipsy ancestress and my weird luck
    And my Taroc pack and my Taroc pack
    I may be a bit of a Jew.

    I have always been scared of you,
    With your Luftwaffe, your gobbledygoo.
    And your neat mustache
    And your Aryan eye, bright blue.
    Panzer-man, panzer-man, O You--

    Not God but a swastika
    So black no sky could squeak through.
    Every woman adores a Fascist,
    The boot in the face, the brute
    Brute heart of a brute like you.

    You stand at the blackboard, daddy,
    In the picture I have of you,
    A cleft in your chin instead of your foot
    But no less a devil for that, no not
    Any less the black man who

    Bit my pretty red heart in two.
    I was ten when they buried you.
    At twenty I tried to die
    And get back, back, back to you.
    I thought even the bones would do.

    But they pulled me out of the sack,
    And they stuck me together with glue.
    And then I knew what to do.
    I made a model of you,
    A man in black with a Meinkampf look

    And a love of the rack and the screw.
    And I said I do, I do.
    So daddy, I'm finally through.
    The black telephone's off at the root,
    The voices just can't worm through.

    If I've killed one man, I've killed two--
    The vampire who said he was you
    And drank my blood for a year,
    Seven years, if you want to know.
    Daddy, you can lie back now.

    There's a stake in your fat black heart
    And the villagers never liked you.
    They are dancing and stamping on you.
    They always knew it was you.
    Daddy, daddy, you bastard, I'm through.

    12 October 1962

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    1. e questa è la traduzione in italiano di Daddy - Sylvia Plath:

      PAPA' - SYLVIA PLATH
      Non mi vai più, no
      non mi vai più, scarpa nera,
      in cui per trent'anni ho vissuto
      come un piede, povera e bianca,
      senza osare respiro o starnuto.

      Ho dovuto ucciderti, papà.
      Sei morto prima che avessi il tempo--
      Pesante come marmo, otre pieno di Dio,
      orrida statua con un alluce grigio,
      grosso come una foca di Frisco

      e la testa nell'Atlantico bizzarro
      dove fiotta verde oliva sul blu
      nelle acque della bella Nauset.
      Pregavo per riaverti, un tempo.
      Ach, du.

      In lingua tedesca, nel paese polacco
      spianato dal rullo compressore
      di guerre, guerre, guerre.
      Ma il nome del paese è comune.
      Il mio amico polacco dice

      che ce n'è dozzine.
      E così non ho mai saputo
      dove piantasti il piede, la radice,
      e di parlarti non mi è mai riuscito.
      la lingua mi si attaccava al palato,

      presa in trappola dal filo spinato.
      Ich, ich, ich, ich,
      e sempre mi bloccavo lì.
      Ogni tedesco mi sembrava te
      e la lingua era oscena,

      una locomotiva, un treno
      che mi portava via ciuff ciuff come un ebreo.
      Un ebreo ad Auschwitz, Belsen, Dachau.
      Ho cominciato a parlare da ebrea.
      potrei anche esserlo, ebrea.

      Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna
      non sono così genuine e pure.
      Con l'ava zingara e la mia strana sorte
      e il mio mazzo di tarocchi, le mie carte,
      un po' ebrea lo sono forse.

      Mi hai sempre fatto paura, tu.
      con la tua Luftwaffe, il tuo ostrogoto,
      il tuo baffetto ben curato,
      l'occhio ariano, così blu.
      Uomo-panzer, uomo panzer, ah tu---

      Non Dio, una svastica piuttosto,
      così nera che il cielo si arresta.
      Tutte le donne amano il fascista,
      lo stivale in faccia, il brutale
      cuore brutale di un bruto par tuo.

      Nella foto che ho di te, papà,
      sei ritto davanti alla lavagna.
      Invece del piede hai il mento fesso,
      ma sei un diavolo lo stesso,
      sei sempre l'uomo nero che

      azzannò e squarciò in due il mio cuore rosso.
      Ti seppellirono che avevo dieci anni.
      A venti cercai di morire
      e tornare, tornare, tornare da te.
      Anche le ossa potevano bastare.

      Ma mi tirarono fuori dal sacco,
      e mi rincollarono pezzo su pezzo.
      E allora capii cosa fare.
      Mi fabbricai un modello di te,
      un uomo in nero con un'aria da Meinkampf,

      un amante del bastone e del torchio.
      E pronunciai il mio sì, il mio sì.
      Eccomi dunque alla fine, papà.
      Il telefono nero è strappato,
      sradicato, le voci non ci strisciano più.

      Se ho ucciso un uomo, ho fatto il bis--
      Il vampiro che si spacciò per te
      e mi succhiò il sangue per un anno,
      per sette, se proprio vuoi saperlo, va'!
      Torna pure nella fossa, papà.

      C'è un palo nel tuo cuoraccio nero
      e a quelli del paese non sei mai piaciuto.
      Adesso ballano e ti pestano coi piedi.
      Che eri tu l'hanno sempre saputo.
      Papà, papà, bastardo, è finita.

      12 ottobre 1962

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    2. Questa terribile poesia fa il paio con la prima che ho proposto (Le Muse inquietanti) dedicata alla madre. Sono entrambe una sorta di testamento spirituale, piene di accuse, sofferenza, desiderio d'amore frustrato. Tuttavia, in Daddy, ci sono due righe particolari (... le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna/ non sono così genuine e pure...), in cui Sylvia, forse per dispetto, insinua la possibilità di essere stata concepita in una relazione clandestina della madre (austriaca) con un ebreo. Io credo sia solo la frequente e rabbiosa sensazione, per non dire speranza, comune a molti figli trascurati o tartassati di provenire da altri lombi, migliori e assai diversi da quelli ufficiali.
      In altre righe (... e pronunciai il mio sì...) ecco un'altra accusa pesante: l'avere avuto un padre terribilmente severo e incapace d'amare costringe una bambina, rimasta orfana a dieci anni, a restare bloccata tutta la vita a quell'età e a in quella condizione di orfana fino a non diventare mai adulta, per finire poi prigioniera di un uomo-copia del padre perduto, ossia un altro bastardo. Ma quando Sylvia scrive questa poesia, finalmente è libera da entrambi, anche se le cicatrici sono profondissime.

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  23. It's the best time to make some plans for the future and it's time to be happy. I've read this post and if I could I want to suggest you few interesting things or advice. Maybe you can write next articles referring to this article. I desire to read even more things about it!

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  24. La meravigliosa Ariel, rarefatta e ritmata sulla velocità del pensiero. Quasi un rap disperato.

    ARIEL - SYLVIA PLATH

    Stasis in darkness.
    Then the substanceless blue
    Pour of tor and distances.

    God's lioness,
    How one we grow,
    Pivot of heels and knees! -- The furrow

    Splits and passes, sister to
    The brown arc
    Of the neck I cannot catch,

    Nigger-eye
    Berries cast dark
    Hooks --

    Black sweet blood mouthfuls,
    Shadows.
    Something else

    Hauls methrough air --
    Thighs, hair;
    Flakes from my heels.

    White
    Godiva, I unpeel --
    Dead hands, dead stringencies.

    And now I
    Foam to wheat, a glitter of seas.
    The child's cry

    Melts in the wall.
    And I
    Am the arrow,

    The dew that flies
    Suicidal, at one with the drive
    Into the red

    Eye, the cauldron of morning.
    27 october 1962

    ARIEL - SYLVIA PLATH

    Stasi nel buio. Poi
    l'insostanziale azzurro
    riversarsi di altura e distanze.

    Leonessa di Dio,
    come ci compenetriamo,
    perno di talloni e ginocchia! - Il solco

    si fende e passa, sorella
    al bruno arco
    del collo che non posso afferrare,

    bacche occhi-di-negro
    gettano oscuri
    uncini -

    Boccate di un nero dolce sangue,
    ombre.
    Qualcos'altro

    mi tira su nell'aria -
    cosce, capelli;
    dai miei calcagni si squama.

    Bianca
    Godiva, mi spoglio -
    morte mani, morte costrizioni.

    E adesso io
    spumeggio al grano, scintillio di mari.
    Il pianto del bambino

    nel muro si dissollve.
    E io
    sono la freccia,

    la rugiada che vola
    suicida, in una con la spinta
    dentro il rosso

    occhio cratere del mattino.

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  25. «Forse quando sentiamo che vogliamo tutto è perché siamo pericolosamente vicini a non volere niente. Il non volere niente ha due estremi: o uno è del tutto realizzato e ricco e ha una tale quantità di mondi interiori che quello esteriore non gli serve per provare gioia, perché la gioia emana dal centro del suo essere; oppure uno è morto e marcito dentro e questo mondo non ha niente da dargli».

    Sylvia Plath, “Diari”

    la rubo a "Il mestiere di scrivere", perché questa frase è di tutti noi, che conosciamo bene persone di entrambi i tipi, nella vita reale come in quella virtuale. Ci sono persone meravigliose, piene di idee, persone rasserenanti o competenti o impegnate. E poi c'è la massa dei morti, che postano frasi di libri che non leggono, o musica che non ascoltano nei concerti, o quadri che non hanno mai visto dal vero, o foto di luoghi che non vedranno mai; e per questo si sentono grandi senza spostarsi dal divano. Lentamente muore chi non legge, non viaggia o non ascolta musica, diceva Martha Medeiros.

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  26. Archivio > La Repubblica > 2009 > 03 > 24 >

    SYLVIA PLATH IL FANTASMA DI UNA MADRE
    QUARANTASEI anni dopo il suicido di sua madre, la poetessa Sylvia Plath, Nicholas Hughes si è impiccato nella sua casa in Alaska. Da anni combatteva contro la depressione. Aveva lasciato la cattedra di Scienze oceaniche all'università di Fairbanks per mettere su una fabbrica di ceramiche. Nicholas Hughes era nato 47 anni fa dal matrimonio fra la Plath e Ted Hughes, anche lui poeta. Non era sposato e non aveva figli. Si è ucciso il 16 marzo scorso, ma la notizia è stata diffusa l' altro ieri sul Times dalla sorella Frieda. Sylvia Plath si uccise nel 1963 con il gas. Sei anni dopo anche la nuova compagna di Ted Hughes, Assia Wevill, si tolse la vita allo stesso modo e morì anche la figlioletta della coppia. Sul poeta britannico cadde la colpa di aver spinto entrambe le donne al suicidio con i suoi adulteri. La sua versione dei fatti fu raccontata poco prima della morte, nel 1998, in Lettere di compleanno. Non deve essere facile trovare un posto nel mondo sapendo che tua madre si è tolta la vita quando tu eri poco più di un neonato. Ancor meno deve esserlo se lei lo ha fatto in cucina, infilando la testa nel forno mentre tu, ignaro, dormivi nella camera accanto insieme alla sorellina di due anni. Se poi il gesto estremo diventa un mito della letteratura moderna e trasforma tua madre in un oggetto di culto, vivere può rivelarsi intollerabile. Nicholas Hughes, figlio di Sylvia Plath, si è impiccato la scorsa settimana. Viveva immerso nei paesaggi aspri e selvaggi dell' Alaska. Aveva ereditato la passione per il mare e i pesci dal padre Ted che amava esaltare la potenza della natura nei suoi versi. Pare che nonostante tutto avesse mantenuto un entusiasmo e un' innocenza quasi infantili. Ma il difficile equilibrio deve essersi spezzato. I fantasmi del passato hanno preso il sopravvento. «Ha lottato per qualche tempo contro la depressione» spiega la sorella Frieda. Si dice spesso che la tendenza al suicidio sia ereditaria. Il caso di Sylvia Plath è però assai aggrovigliato e non può essere ridotto a una questione di tara genetica. Che la scrittrice soffrisse di manie depressive è fuor di dubbio, così com'è certo che i tre elettroshock cui fu sottoposta da ragazza non l'hanno aiutata. Furono tuttavia altre le questioni sollevate all'indomani del ritrovamento del cadavere, l'11 febbraio 1963. Si parlò di pene d' amore, di tradimento, di un celebrato quanto egoista poeta inglese che aveva abbandonato una dotata quanto fragile poetessa americana per un'altra donna. Sylvia e Ted si erano conosciuti sette anni prima, a Cambridge. Nata a Boston, Sylvia era una studentessa brillante con una sfrenata ambizione di imporsi nel mondo letterario. Ted era invece un giovanotto inglese dai progetti ancora confusi ma aveva comunque pubblicato alcune poesie, oggetto d' ammirazione per Sylvia. Al loro primo incontro lui rimase abbagliato dalla frangetta alla Veronica Lake di lei. Lei gli recitò a memoria i suoi versi. Si trovavano a una festa. Lui la invitò a ballare. Si ubriacarono e si baciarono. E con ciò giunse il momento poi diventato leggenda: i denti di lei affondarono a tal punto nella guancia di lui da farla sanguinare. Nei castigati anni Cinquanta si veniva chiacchierati per molto meno. Nel giro di pochi mesi la coppia finisce all'altare. All'inizio è una luna di miele, uniti dalla passione per la letteratura i due fanno avanti e indietro tra l'America e il vecchio continente. Con la nascita dei figli arrivano però i problemi, e alla frustrante routine della maternità si aggiungono le scappatelle di Ted, che alla fine preferirà gettarsi tra le braccia di un' altra, Assia Wevill. Per Sylvia inizia un periodo di ristrettezze economiche ma anche di intensa attività che culmina nel 1963 con la pubblicazione sotto pseudonimo del romanzo La campana di vetro. (1-segue)

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    1. (2-continua)Archivio > La Repubblica > 2009 > 03 > 24 >

      SYLVIA PLATH IL FANTASMA DI UNA MADRE
      L'accoglienza, pur non del tutto negativa, è tiepida e comunque inferiore alle speranzose attese dell' autrice, che sentiva la propria sensibilità schiacciata tra la voglia di affermarsi e il ruolo che la società del tempo imponeva a una donna. In capo a un mese, mette in camera i figli, sigilla porte e finestre della cucina, scrive un'ultima poesia e infila la testa nel forno. La tragedia ha un' assurda replica qualche tempo dopo. Perché il 23 marzo 1969, anche Assia Wevill si toglie la vita alla stessa maniera: con il gas del forno. Diversamente da Sylvia, però, decise di uccidere pure la figlia di quattro anni. L' ignominia si abbatté fatalmente su Ted Hughes. Il poeta fu accusato di essere un uomo dal cuore di pietra che aveva indotto due donne al suicidio; qualcuno tirò via a colpi di scalpello il suo cognome dalla tomba di Sylvia Plath. Lui si è chiuso in un impenetrabile silenzio finché non diede la propria versione dei fatti in una raccolta di poesie che fece scalpore. In una di queste, ricordando il primo momento d'amore con Sylvia, scrive: «Eri sottile, sinuosa, sfuggente come un pesce». Sinuosa e sfuggente come le creature amate da suo figlio Nicholas, verrebbe da aggiungere col senno di poi. Ma la catena dei suicidi è più lunga ancora. Nel 1974 si uccide con il gas Anne Sexton, amica di gioventù di Sylvia. Anni addietro, quando erano entrambe poetesse alle prime armi, si divertivano a chiacchierare al bar delle loro inclinazioni suicide. Chiacchierate che la Sexton ha rievocato in versi dopo la scomparsa di Sylvia: «Come hai potuto scivolare giù da sola /nella morte che così tanto e così a lungo ho desiderato /... la morte di cui così tanto parlavamo a Boston /mentre ci scolavamo tre martini extra dry». I gas con cui anche lei, in seguito, si tolse la vita furono però quelli di scarico di un' automobile. Con macabra ironia qualcuno ha commentato che fu costretta a optare per il garage perché in America i forni erano ormai tutti elettrici. L' amante del marito, l' amica, il figlio. Un cerchio inquietante che trascende i legami di sangue. Cos' è dunque il suicidio? Una malattia contagiosa, una perversa tentazione che si trasmette alla maniera dei virus? Le paurose ragioni che spingono un essere umano a rincorrere un suo simile verso l' eterna notte sono fatte di mistero, ma devono somigliare molto alle parole che Sylvia Plath appuntò in un gelido giorno d' inverno: «Parlo a Dio ma il cielo è vuoto».
      TOMMASO PINCIO - Repubblica

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  27. «Fammi essere forte, forte di sonno e di intelligenza e forte di ossa e di fibra; fammi imparare, attraverso questa disperazione, a distribuirmi: a sapere dove e a chi dare, a riempire i brevi momenti e le chiacchiere casuali di quell’infuso speciale di devozione e amore che sono le nostre epifanie. A non essere amara. Risparmiamelo il finale, quel finale acido citrico aspro che scorre nelle vene delle donne in gamba e sole. Non farmi disperare al punto da buttar via il mio onore per la mancanza di consolazione; non farmi nascondere nell’alcool e non permettere che mi laceri per degli sconosciuti; non farmi essere tanto debole da raccontare agli altri come sanguino dentro; come giorno dopo giorno gocciola, si addensa e si coagula».

    Sylvia Plath, “Diari”

    grazie a Il mestiere di scrivere

    RispondiElimina
  28. Hello there !

    “God, but life is loneliness, despite all the opiates, despite the shrill tinsel gaiety of "parties" with no purpose, despite the false grinning faces we all wear. And when at last you find someone to whom you feel you can pour out your soul, you stop in shock at the words you utter - they are so rusty, so ugly, so meaningless and feeble from being kept in the small cramped dark inside you so long. Yes, there is joy, fulfillment and companionship - but the loneliness of the soul in its appalling self-consciousness is horrible and overpowering.”

    Sylvia Plath

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    Risposte
    1. “Dio, la vita è davvero solitudine, malgrado tutti gli oppiacei, malgrado la stridula, effimera allegria delle “feste” senza scopo, malgrado il falso sorriso che tutti noi indossiamo. E quando alla fine trovi qualcuno in cui pensi di poter riversare la tua anima, ti blocchi di colpo davanti alla tue stesse parole – sono così ruvide, brutte, senza senso e fiacche avendole tenute stipate così a lungo nel buio dentro di te.
      Sì, c’è l’allegria, il successo, lo stare insieme - ma la solitudine dell’anima, nella sua spaventosa autocoscienza, è insopportabile, travolgente.”

      Sylvia Plath - Diari

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    2. This text is priceless.

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  29. LOVE LETTER - SYLVIA PLATH

    Not easy to state the change you made.
    If I’m alive now, then I was dead,
    Though, like a stone, unbothered by it,
    Staying put according to habit.
    You didn’t just tow me an inch, no-
    Nor leave me to set my small bald eye
    Skyward again, without hope, of course,
    Of apprehending blueness, or stars.

    That wasn’t it. I slept, say: a snake
    Masked among black rocks as a black rock
    In the white hiatus of winter-
    Like my neighbors, taking no pleasure
    In the million perfectly-chiseled
    Cheeks alighting each moment to melt
    My cheeks of basalt. They turned to tears,
    Angels weeping over dull natures,

    But didn’t convince me. Those tears froze.
    Each dead head had a visor of ice.
    And I slept on like a bent finger.
    The first thing I was was sheer air
    And the locked drops rising in dew
    Limpid as spirits. Many stones lay
    Dense and expressionless round about.
    I didn’t know what to make of it.
    I shone, mice-scaled, and unfolded
    To pour myself out like a fluid
    Among bird feet and the stems of plants.

    I wasn’t fooled. I knew you at once.
    Tree and stone glittered, without shadows.
    My finger-length grew lucent as glass.
    I started to bud like a March twig:
    An arm and a leg, and arm, a leg.
    From stone to cloud, so I ascended.
    Now I resemble a sort of god
    Floating through the air in my soul-shift
    Pure as a pane of ice. It’s a gift.
    16 october 1960

    LETTERA D'AMORE - SYLVIA PLATH

    Non è facile dire il cambiamento che operasti.
    Se adesso sono viva, allora ero morta
    anche se, come una pietra, non me ne curavo
    e me ne stavo dov’ero per abitudine.
    Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no -
    e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
    di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
    di comprendere l’azzurro, o le stelle.

    Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
    mascherato da sasso nero tra i sassi neri
    nel bianco iato dell’inverno -
    come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
    dai milioni di guance perfettamente cesellate
    che si posavano a ogni istante per sciogliere
    la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
    angeli piangenti su nature spente,
    Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
    Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.

    E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
    La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
    e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
    limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
    pietre stolide e inespressive,
    Io guardavo e non capivo.
    Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
    per riversarmi fuori come un liquido
    tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
    Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.

    Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
    La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
    Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
    un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
    Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
    Ora assomiglio a una specie di dio
    e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
    pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono.

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  31. Blackberrying by Sylvia Plath

    Nobody in the lane, and nothing, nothing but blackberries,
    Blackberries on either side, though on the right mainly,
    A blackberry alley, going down in hooks, and a sea
    Somewhere at the end of it, heaving. Blackberries
    Big as the ball of my thumb, and dumb as eyes
    Ebon in the hedges, fat
    With blue-red juices. These they squander on my fingers.
    I had not asked for such a blood sisterhood; they must love me.
    They accommodate themselves to my milkbottle, flattening their sides.

    Overhead go the choughs in black, cacophonous flocks—
    Bits of burnt paper wheeling in a blown sky.
    Theirs is the only voice, protesting, protesting.
    I do not think the sea will appear at all.
    The high, green meadows are glowing, as if lit from within.
    I come to one bush of berries so ripe it is a bush of flies,
    Hanging their bluegreen bellies and their wing panes in a Chinese screen.
    The honey-feast of the berries has stunned them; they believe in heaven.
    One more hook, and the berries and bushes end.

    The only thing to come now is the sea.
    From between two hills a sudden wind funnels at me,
    Slapping its phantom laundry in my face.
    These hills are too green and sweet to have tasted salt.
    I follow the sheep path between them. A last hook brings me
    To the hills’ northern face, and the face is orange rock
    That looks out on nothing, nothing but a great space
    Of white and pewter lights, and a din like silversmiths
    Beating and beating at an intractable metal.

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    1. ecco la traduzione:

      ANDAR PER MORE - SYLVIA PLATH

      Nessuno sul sentiero, e niente, niente se non more,
      more su entrambi i lati, ma soprattutto a destra,
      un vialetto di more che scende a tornanti, e là dove finisce,
      da qualche parte, un mare che si gonfia. More
      grosse come il polpastrello del mio pollice e mute come occhi
      ebano nelle siepi, grasse
      di succhi rossoazzurri. E li scialacquano sulle mie dita.
      Non avevo chiesto questa sorellanza di sangue: devono proprio amarmi.
      Si adattano alla mia bottiglia del latte, comprimendosi i fianchi.

      In alto vanno i gracchi, in neri stormi cacofonici -
      brandelli di carta bruciata che turbinano in un cielo spazzato.
      La loro è l'unica voce, e protesta, protesta.
      Non credo che il mare apparirà.
      Gli alti prati verdi ardono come se avessero dentro una luce.
      Arrivo a un cespuglio di bacche così mature che è un cespuglio di mosche,
      i ventri verdeazzurri e le lastre trasparenti delle ali sospesi in un paravento cinese.
      Il banchetto di miele delle more le ha sopraffatte: credono nel paradiso.
      Ancora un tornante, e le bacche e i cespugli sono finiti.

      Adesso manca solo il mare.
      Incanalato tra due colline un vento improvviso si riversa su di me,
      schiaffeggiandomi col suo bucato fantasma.
      Queste colline sono troppo verdi e dolci per aver assaggiato il sale.
      Seguo il tratturo di pecore fra loro. Un ultimo tornante
      mi porta al lato nord, una parete di roccia arancione
      affacciata su nulla, nulla se non un vasto spazio
      di luci bianche e color peltro, e un fragore come di argentieri
      che battono e battono su un intrattabile metallo.

      23 settembre 1961

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  32. La poesia che segue è nota sia come La luna e il cipresso, che come La luna e il tasso. Dopo quella originale, metterò entrambe le versioni.

    THE MOON AND THE YEW TREE - SYLVIA PLATH

    This is the light of the mind, cold and planetary
    The trees of the mind are black. The light is blue.
    The grasses unload their griefs on my feet as if I were God
    Prickling my ankles and murmuring of their humility
    Fumy, spiritous mists inhabit this place.
    Separated from my house by a row of headstones.
    I simply cannot see where there is to get to.

    The moon is no door. It is a face in its own right,
    White as a knuckle and terribly upset.
    It drags the sea after it like a dark crime; it is quiet
    With the O-gape of complete despair. I live here.
    Twice on Sunday, the bells startle the sky --
    Eight great tongues affirming the Resurrection
    At the end, they soberly bong out their names.

    The yew tree points up, it has a Gothic shape.
    The eyes lift after it and find the moon.
    The moon is my mother. She is not sweet like Mary.
    Her blue garments unloose small bats and owls.
    How I would like to believe in tenderness -
    The face of the effigy, gentled by candles,
    Bending, on me in particular, its mild eyes.

    I have fallen a long way. Clouds are flowering
    Blue and mystical over the face of the stars
    Inside the church, the saints will all be blue,
    Floating on their delicate feet over the cold pews,
    Their hands and faces stiff with holiness.
    The moon sees nothing of this. She is bald and wild.
    And the message of the yew tree is blackness - blackness and silence.

    22 October 1961

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    1. ecco la prima traduzione:

      LA LUNA E IL CIPRESSO - SYLVIA PLATH
      Questa è la luce della memoria, fredda e planetaria.
      Neri sono gli alberi della memoria, azzurra la luce.
      L'erba riversa ai miei piedi, quasi io fossi Dio, le sue pene,
      pungendomi le caviglie e mormorando umiltà.
      Fumosi, spiritali vapori abitano questo luogo
      Che una fila di lapidi separa dalla mia casa.
      Insomma, non riesco a vedere il posto che ci aspetta.

      La luna non è una porta ma precisamente una faccia
      Bianca come una nocca e terribilmente sconvolta.
      Attira il mare come un buio delitto, tranquilla
      Nell'O della sua bocca spalancata e disperata. Io
      Abito qui. La domenica due volte squassano il cielo
      Le campane - otto lingue clamanti Resurrezione.
      Placate, infine scandiscono i loro nomi.

      Il cipresso punta in su, ha un profilo gotico.
      Gli occhi seguendolo trovano la luna.
      La luna è mia madre. Non è dolce come Maria.
      Le sue azzurre vesti sprigionano pipistrelli e civette.
      Come vorrei credere nella tenerezza -
      Il volto dell'effigie, ingentilito da candele,
      chino proprio su me, i miti occhi.

      Fu lunga la mia caduta. Le nuvole fioriscono
      Azzurre e mistiche sulla faccia delle stelle.
      Dentro la chiesa, saranno tutti azzurri i santi che sfiorano coi teneri piedi i freddi banchi,
      Le mani e le facce rigide di santità.
      Niente di ciò vede la luna;è vuota e desolata.
      E il messaggio del cipresso e nerezza - nerezza e silenzio.

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    2. e questa è la seconda, che preferisco:

      LA LUNA E IL TASSO - SYLVIA PLATH
      (traduzione di Anna Ravano)

      Questa è la luce della mente, fredda e planetaria.
      Gli alberi della mente sono neri. La luce è azzurra.
      Le erbe mi riversano sui piedi le loro angosce come se fossi Dio,
      pungendomi le caviglie e mormorando la loro umiltà.
      Brume fumose, spiritali, abitano questo luogo
      che una fila di lapidi separa dalla mia casa.
      Non vedo proprio dove si possa andare.

      La luna non è una porta. E' una vera faccia,
      bianca come una nocca stravolta.
      Si trascina dietro il mare come un delitto oscuro, è silenziosa,
      la bocca fissa nell’O della disperazione. Io vivo qui.
      La domenica le campane per due volte fanno trasalire il cielo--
      otto grandi lingue che affermano la Resurrezione.
      Alla fine rintoccano sobriamente i loro nomi.

      Il tasso indica l’alto.Ha una forma gotica.
      Gli occhi lo seguono e trovano la luna.
      la luna è mia madre. Non è dolce come Maria.
      Le sue vesti azzurre sprigionano pipistrelli e gufi.
      Come vorrei credere nella tenerezza—-
      il volto dell’effigie, addolcito dalle candele,
      che china, proprio su di me, gli occhi soavi.

      Sono caduta lontano.Le nuvole fioriscono
      azzurre e mistiche sul volto delle stelle.
      Dentro la chiesa, i santi saranno tutti azzurri,
      fluttuanti su piedi delicati sopra i banchi freddi,
      le mani e i volti rigidi di santità.
      La luna non vede nulla di tutto questo. È calva e forsennata.
      E il messaggio del tasso è il nero–il nero e il silenzio.
      22 Ottobre 1961

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  33. "E allora impara a vivere. Tagliati una bella porzione di torta con le posate d’argento. Impara come fanno le foglie a crescere sugli alberi. Apri gli occhi. Impara come fa la luna a tramontare nel gelo della notte prima di Natale. Apri le narici. Annusa la neve. Lascia che la vita accada..."
    Sylvia Plath

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  34. “I took a deep breath and listened to the old brag of my heart. I am, I am, I am.”
    Sylvia Plath - from The Bell Jar

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  37. Sylvia Plath died in London, England on this day in 1963 (aged 30).

    “Mad Girl's Love Song"

    I shut my eyes and all the world drops dead;
    I lift my lids and all is born again.
    (I think I made you up inside my head.)

    The stars go waltzing out in blue and red,
    And arbitrary blackness gallops in:
    I shut my eyes and all the world drops dead.

    I dreamed that you bewitched me into bed
    And sung me moon-struck, kissed me quite insane.
    (I think I made you up inside my head.)

    God topples from the sky, hell's fires fade:
    Exit seraphim and Satan's men:
    I shut my eyes and all the world drops dead.

    I fancied you'd return the way you said,
    But I grow old and I forget your name.
    (I think I made you up inside my head.)

    I should have loved a thunderbird instead;
    At least when spring comes they roar back again.
    I shut my eyes and all the world drops dead.
    (I think I made you up inside my head.)”
    ― Sylvia Plath

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    1. ecco la traduzione:

      CANZONE D'AMORE DI UNA RAGAZZA FOLLE - SYLVIA PLATH

      Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore;
      Schiudo le palpebre e tutto rinasce.
      (Sono convinta di averti inventato.)

      Le stelle escon danzando in blu e rosso,
      Oscurità arbitraria entra al galoppo:
      Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore.

      Sognai che mi stregavi nel mio letto
      M’incantavi e baciavi alla follia.
      (Sono convinta di averti inventato.)

      Giù Dio dal cielo, spenti i fuochi inferni,
      Fuori Serafini e schiere di Satana:
      Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore.

      Speravo che tornassi, l’hai promesso,
      Ma ora invecchio e dimentico il tuo nome.
      (Sono convinta di averti inventato.)

      Dovevo amare un uccello del tuono:
      Quelli tornan ruggendo a primavera.
      Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore.
      (Sono convinta di averti inventato.)

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  38. Remembering Sylvia Plath, who died on this day in 1963.

    "Lady Lazarus" by Sylvia Plath

    I have done it again.
    One year in every ten
    I manage it--

    A sort of walking miracle, my skin
    Bright as a Nazi lampshade,
    My right foot

    A paperweight,
    My face a featureless, fine
    Jew linen.

    Peel off the napkin
    O my enemy.
    Do I terrify?--

    The nose, the eye pits, the full set of teeth?
    The sour breath
    Will vanish in a day.

    Soon, soon the flesh
    The grave cave ate will be
    At home on me

    And I a smiling woman.
    I am only thirty.
    And like the cat I have nine times to die.

    This is Number Three.
    What a trash
    To annihilate each decade.

    What a million filaments.
    The peanut-crunching crowd
    Shoves in to see

    Them unwrap me hand and foot--
    The big strip tease.
    Gentlemen, ladies

    These are my hands
    My knees.
    I may be skin and bone,

    Nevertheless, I am the same, identical woman.
    The first time it happened I was ten.
    It was an accident.

    The second time I meant
    To last it out and not come back at all.
    I rocked shut

    As a seashell.
    They had to call and call
    And pick the worms off me like sticky pearls.

    Dying
    Is an art, like everything else.
    I do it exceptionally well.

    I do it so it feels like hell.
    I do it so it feels real.
    I guess you could say I've a call.

    It's easy enough to do it in a cell.
    It's easy enough to do it and stay put.
    It's the theatrical

    Comeback in broad day
    To the same place, the same face, the same brute
    Amused shout:

    'A miracle!'
    That knocks me out.
    There is a charge

    For the eyeing of my scars, there is a charge
    For the hearing of my heart--
    It really goes.

    And there is a charge, a very large charge
    For a word or a touch
    Or a bit of blood

    Or a piece of my hair or my clothes.
    So, so, Herr Doktor.
    So, Herr Enemy.

    I am your opus,
    I am your valuable,
    The pure gold baby

    That melts to a shriek.
    I turn and burn.
    Do not think I underestimate your great concern.

    Ash, ash--
    You poke and stir.
    Flesh, bone, there is nothing there--

    A cake of soap,
    A wedding ring,
    A gold filling.

    Herr God, Herr Lucifer
    Beware
    Beware.

    Out of the ash
    I rise with my red hair
    And I eat men like air.
    23-29 October 1962

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    1. Ecco la traduzione:

      LADY LAZARUS - SYLVIA PLATH

      L'ho rifatto.
      Un anno ogni dieci
      mi riesce ---

      una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
      splendente come un paralume nazista,
      il piede destro

      un fermacarte
      il viso, anonima e fine
      tela ebraica.

      Solleva il panno,
      o mio nemico,
      Incuto terrore?----

      Il naso, le occhiaie vuote, tutti i denti?
      L'alito puzzolente
      svanirà in un giorno.

      Presto, presto la carne
      che il severo sepolcro ha divorato
      tornerà al suo posto su di me,

      e sarò una donna sorridente.
      Ho trent'anni soltanto.
      E come i gatti ho nove volte per morire.

      Questa è la Numero Tre.
      Quanto ciarpame,
      da annientare ogni decennio,

      che miriade di filamenti.
      La folla che sgranocchia noccioline
      spintona per vedere

      mentre vengo sbendata mani e piedi ---
      il grande spogliarello.
      Signori e signore,

      ecco qua le mie mani,
      le ginocchia.
      Sarò pure pelle e ossa,

      ma sono sempre la stessa identica donna.
      La prima volta avevo dieci anni.
      Fu un incidente.

      La seconda volevo
      andare fino in fondo senza ritorno.
      Cullandomi mi chiusi

      come una conchiglia.
      Dovettero chiamare e chiamare
      e staccarmi di dosso i vermi come perle appiccicose.

      Morire
      è un'arte, come qualunque altra cosa.
      Io lo faccio in modo magistrale,

      lo faccio che fa un effetto da impazzire
      lo faccio che fa un effetto vero.
      Potreste dire che ho la vocazione.

      E' facile farlo in una cella.
      E' facile farlo e rimanerci.
      E' il teatrale

      ritorno in scena in pieno giorno,
      stesso posto, stessa faccia, stesso bestiale
      urlo goduto:

      "Miracolo!"
      E' questo che mi stende.
      Si paga

      per vedere le mie cicatrici, si paga
      per ascoltarmi il cuore ---
      funziona eccome.

      E si paga, si paga salato
      per sentire una parola, per toccare,
      per un goccio di sangue,

      una ciocca di capelli, un brandello di veste.
      E così, Herr Doktor,
      e così, Herr Nemico.

      Sono il tuo capolavoro,
      il tuo bene più prezioso,
      l'infante d'oro puro

      che si scioglie in un grido.
      Mi rigiro e brucio.
      Non credere che sottovaluti le tue sollecite cure.

      Cenere, cenere ---
      Frughi e rimesti.
      Carne, ossa, non ci sono resti ---

      una saponetta,
      una vera nuziale,
      una capsula dentaria.

      Herr Dio, Herr Lucifero
      in guardia
      in guardia.

      Dalla cenere
      sorgo con i miei capelli rossi
      e divoro gli uomini come aria.

      23-29 ottobre 1962


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  48. “The future is what matters — because one never reaches it, but always stays in the present — like the White Queen who had to run like the wind to remain in the same spot.”
    ― Sylvia Plath, The Unabridged Journals of Sylvia Plath

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  49. Departure, by Sylvia Plath

    The figs on the fig tree in the yard are green;
    Green, also, the grapes on the green vine
    Shading the brickred porch tiles.
    The money's run out.

    How nature, sensing this, compounds her bitters.
    Ungifted, ungrieved, our leavetaking.
    The sun shines on unripe corn.
    Cats play in the stalks.

    Retrospect shall not often such penury-
    Sun's brass, the moon's steely patinas,
    The leaden slag of the world-
    But always expose

    The scraggy rock spit shielding the town's blue bay
    Against which the brunt of outer sea
    Beats, is brutal endlessly.
    Gull-fouled, a stone hut

    Bares its low lintel to corroding weathers:
    Across the jut of ochreous rock
    Goats shamble, morose, rank-haired,
    To lick the sea-salt.

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  51. no quarter19/11/14, 18:02

    "Mushrooms"
    "Overnight, very
    Whitely, discreetly,
    Very quietly
    Our toes, our noses
    Take hold on the loam,
    Acquire the air.
    Nobody sees us,
    Stops us, betrays us;
    The small grains make room.
    Soft fists insist on
    Heaving the needles,
    The leafy bedding,
    Even the paving.
    Our hammers, our rams,
    Earless and eyeless,
    Perfectly voiceless,
    Widen the crannies,
    Shoulder through holes. We
    Diet on water,
    On crumbs of shadow,
    Bland-mannered, asking
    Little or nothing.
    So many of us!
    So many of us!
    We are shelves, we are
    Tables, we are meek,
    We are edible,
    Nudgers and shovers
    In spite of ourselves.
    Our kind multiplies:
    We shall by morning
    Inherit the earth.
    Our foot's in the door.”
    ― Sylvia Plath

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  52. vado con la traduzione:

    FUNGHI - SYLVIA PLATH
    Nottetempo,
    bianchi, discreti,
    senza rumore,
    i nostri piedi, i nasi
    fan loro l'argilla,
    si prendono l'aria.
    Nessuno ci vede,
    ci ferma, ci tradisce;
    i granelli fan posto.
    Pugni soffici insistono
    a spingere gli aghi,
    il letto di foglie,
    perfino il selciato.
    I nostri martelli, i picchiotti
    senz'orecchi, senz'occhi,
    senza un filo di voce,
    allargano crepe,
    spingon su per i fori.
    Di acqua viviamo,
    di briciole d'ombra,
    garbati, chiediamo
    pochissimo, nulla.
    Quanti siamo!
    Quanti!
    Siamo mensole,
    tavoli, siamo miti,
    mangerecci,
    sgomitiamo e spingiamo
    anche senza volere.
    Ci moltiplichiamo:
    ora di domattina
    erediteremo la terra.
    Siamo già sulla soglia.

    13 novembre 1959

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  53. Ringrazio Titti per aver pubblicato questa testimonianza su Ted Hughes. Io continuo ad accusarlo, ma mi sembra corretto dare voce anche alla difesa...

    Canzone d’amore – Ted Hughes (di tittideluca)

    Lui la amava e lei lo amava
    I suoi baci le risucchiavano via il passato e il futuro, o almeno ci provavano
    Lui non aveva altro desiderio
    Lei lo mordeva, lo rosicchiava, lo assaporava
    Lo voleva completamente dentro di sé
    Sano e salvo, sempre e per sempre
    Le loro grida sommesse si perdevano fra le tende

    Gli occhi di lei volevano che nulla svanisse
    Gli sguardi di lei gli inchiodavano le mani, i polsi, i gomiti
    Lui la teneva stretta affinché la vita
    Non la sottraesse a quell’istante
    Lui voleva che tutto il futuro cessasse di esistere
    Desiderava cingerla con le sue braccia
    Dall’orlo di quel momento e nel nulla
    Per l’eternità o qualsiasi altra cosa fosse

    L’abbraccio di lei era un’immensa pressa
    Per stamparselo nelle ossa
    I sorrisi di lui erano i soffitti d’un luogo fiabesco
    Dove il mondo reale non sarebbe mai entrato
    I sorrisi di lei erano morsi di ragno
    Per immobilizzarlo finché ne avesse avuto fame
    Le parole di lui erano come truppe d’occupazione
    Le risate di lei le movenze di un assassino
    Gli sguardi di lui erano stilettate di vendetta
    Le occhiate di lei spettri che nascondono orrendi segreti
    I sussurri di lui erano come frusta e stivali
    I baci di lei avvocati che scrivono e scrivono
    Le carezze di lui erano gli ultimi appigli d’un naufrago
    I giochi amorosi di lei come serrature stridenti
    E le loro alte grida strisciavano sul pavimento
    Come un animale che si trascina dietro una potente trappola
    Le promesse di lui erano il bavaglio del chirurgo
    Quelle di lei gli aprivano il cranio
    Lei se ne sarebbe fatta una spilla
    I giuramenti di lui le prosciugavano tutte le energie
    Lui le mostrava come fare un nodo d’amore
    I giuramenti di lei gli mettevano gli occhi in formalina
    In fondo al cassetto dei suoi segreti
    Le loro urla si conficcavano nel muro
    Le loro teste cedevano al sonno come le due metà
    D’un melone tagliato, ma l’amore non si può fermare

    Avvinti nel sonno si scambiavano braccia e gambe
    In sogno i loro cervelli si prendevano in ostaggio a vicenda

    Al mattino avevano l’uno il volto dell’altra

    Ted Hughes (Traduzione di Anna Ravano e Nicola Gardini)

    da “Poesie”, “I Meridiani” A. Mondadori Editore, 2008

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    1. Ed ecco la versione originale, sempre pubblicata da Titti:

      Lovesong - Ted Hughes

      He loved her and she loved him.
      His kisses sucked out her whole past and future or tried to
      He had no other appetite
      She bit him she gnawed him she sucked
      She wanted him complete inside her
      Safe and sure forever and ever
      Their little cries fluttered into the curtains

      Her eyes wanted nothing to get away
      Her looks nailed down his hands his wrists his elbows
      He gripped her hard so that life
      Should not drag her from that moment
      He wanted all future to cease
      He wanted to topple with his arms round her
      Off that moment’s brink and into nothing
      Or everlasting or whatever there was

      Her embrace was an immense press
      To print him into her bones
      His smiles were the garrets of a fairy palace
      Where the real world would never come
      Her smiles were spider bites
      So he would lie still till she felt hungry
      His words were occupying armies
      Her laughs were an assassin’s attempts
      His looks were bullets daggers of revenge
      His glances were ghosts in the corner with horrible secrets
      His whispers were whips and jackboots
      Her kisses were lawyers steadily writing
      His caresses were the last hooks of a castaway
      Her love-tricks were the grinding of locks
      And their deep cries crawled over the floors
      Like an animal dragging a great trap
      His promises were the surgeon’s gag
      Her promises took the top off his skull
      She would get a brooch made of it
      His vows pulled out all her sinews
      He showed her how to make a love-knot
      Her vows put his eyes in formalin
      At the back of her secret drawer
      Their screams stuck in the wall

      Their heads fell apart into sleep like the two halves
      Of a lopped melon, but love is hard to stop

      In their entwined sleep they exchanged arms and legs
      In their dreams their brains took each other hostage

      In the morning they wore each other’s face

      Ted Hughes

      from “Collected Poems of Ted Hughes”, Faber & Faber, 2012

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  54. ancora grazie a Titti:

    Rosso – Ted Hughes (di tittideluca)

    Il rosso era il tuo colore.
    Se non il rosso, il bianco. Ma il rosso
    era quello di cui ti avvolgevi.
    Rosso sangue. Era sangue?
    Era ocra rossa, per riscaldare i morti?
    Ematite per rendere immortali
    le preziose ossa ereditate, le ossa di famiglia.

    Quando riuscisti finalmente a fare a modo tuo
    la nostra stanza fu rossa. Una camera di giudizio.
    Scrigno chiuso per pietre preziose. Il tappeto di sangue
    con motivi di oscuramenti, di rapprendimenti.
    Le tende – sangue di velluto rubino,
    cascate di sangue dal soffitto al pavimento.
    I cuscini, lo stesso. Lo stesso
    carminio crudo lungo il sedile sotto la finestra.
    Una cella pulsante. Altare azteco – tempio.

    Solo le librerie sfuggirono nel bianco.

    E fuori dalla finestra
    papaveri sottili, rugosi e fragili
    come la pelle sul sangue,
    salvie, di cui tuo padre ti aveva dato il nome,
    come sangue che sprizza ad arco da uno squarcio,
    e rose, le ultime gocce del cuore,
    catastrofiche, arteriose, condannate.

    La tua gonna lunga a ruota di velluto, una fascia di sangue,
    un sontuoso bordò.
    Le tue labbra un cremisi umido, intenso.
    Adoravi il rosso.
    Io lo sentivo carne viva – i margini netti come garza
    di una ferita che si irrigidisce. Vi toccavo
    la vena aperta, il luccichio incrostato.

    Tutto quello che dipingevi lo dipingevi di bianco
    e poi lo inondavi di rose, lo sconfiggevi,
    ti chinavi sopra sgocciolando rose,
    piangendo rose, e rose ancora,
    poi a volte, tra le rose, un uccellino azzurro.

    L’azzurro ti era più benefico. L’azzurro erano ali.
    Sete azzurro martin pescatore venute da San Francisco
    avvolsero la tua gravidanza
    in carezze di crogiolo.
    L’azzurro era il tuo spirito benevolo – non un demone predatore
    ma elettrizzato, un custode, attento.

    Nell’abisso del rosso
    ti nascondesti per sfuggire al bianco della clinica d’ossa.

    Ma la gemma che perdesti era azzurra.

    Ted Hughes

    (Traduzione di Anna Ravano)

    da “Lettere di compleanno”, A. Mondadori Editore, 1999

    ‘***

    Red

    Red was your colour.
    If not red, then white. But red
    Was what you wrapped around you.
    Blood-red. Was it blood?
    Was it red-ochre, for warming the dead?
    Haematite to make immortal
    The precious heirloom bones, the family bones.

    When you had your way finally
    Our room was red. A judgement chamber.
    Shut casket for gems. The carpet of blood
    Patterned with darkenings, congealments.
    The curtains – ruby corduroy blood,
    Sheer blood-falls from ceiling to floor.
    The cushions the same. The same
    Raw carmine along the window-seat.
    A throbbing cell. Aztec altar – temple.

    Only the bookshelves escaped into whiteness.

    And outside the window
    Poppies thin and wrinkle-frail
    As the skin on blood,
    Salvias, that your father named you after,
    Like blood lobbing from the gash,
    And roses, the heart’s last gouts,
    Catastrophic, arterial, doomed.

    Your velvet long full skirt, a swathe of blood,
    A lavish burgandy.
    Your lips a dipped, deep crimson.
    You revelled in red.
    I felt it raw – like crisp gauze edges
    Of a stiffening wound. I could touch
    The open vein in it, the crusted gleam.

    Everything you painted you painted white
    Then splashed it with roses, defeated it,
    Leaned over it, dripping roses,
    Weeping roses, and more roses,
    Then sometimes, among them, a little bluebird.

    Blue was better for you. Blue was wings.
    Kingfisher blue silks from San Francisco
    Folded your pregnancy
    In crucible caresses.
    Blue was your kindly spirit – not a ghoul
    But electrified, a guardian, thoughtful.

    In the pit of red
    You hid from the bone-clinic whiteness.

    But the jewel you lost was blue.

    Ted Hughes

    from “Birthday Letters”, London: Faber and Faber, 1998

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  55. LOVE LETTER - SYLVIA PLATH

    Not easy to state the change you made.
    If I'm alive now, then I was dead,
    Though, like a stone, unbothered by it,
    Staying put according to habit.
    You didn't just tow me an inch, no-
    Nor leave me to set my small bald eye
    Skyward again, without hope, of course,
    Of apprehending blueness, or stars.

    That wasn't it. I slept, say: a snake
    Masked among black rocks as a black rock
    In the white hiatus of winter-
    Like my neighbors, taking no pleasure
    In the million perfectly-chisled
    Cheeks alighting each moment to melt
    My cheeks of basalt. They turned to tears,
    Angels weeping over dull natures,
    But didn't convince me. Those tears froze.
    Each dead head had a visor of ice.

    And I slept on like a bent finger.
    The first thing I was was sheer air
    And the locked drops rising in dew
    Limpid as spirits. Many stones lay
    Dense and expressionless round about.
    I didn't know what to make of it.
    I shone, mice-scaled, and unfolded
    To pour myself out like a fluid
    Among bird feet and the stems of plants.
    I wasn't fooled. I knew you at once.

    Tree and stone glittered, without shadows.
    My finger-length grew lucent as glass.
    I started to bud like a March twig:
    An arm and a leg, and arm, a leg.
    From stone to cloud, so I ascended.
    Now I resemble a sort of god
    Floating through the air in my soul-shift
    Pure as a pane of ice. It's a gift.

    ******

    LETTERA D’AMORE - SYLVIA PLATH

    Non è facile dire il cambiamento che operasti.
    Se adesso sono viva, allora ero morta

    anche se, come una pietra, non me ne curavo
    e me ne stavo dov’ero per abitudine.

    Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no -
    e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo

    di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
    di comprendere l’azzurro, o le stelle.
    Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
    mascherato da sasso nero tra i sassi neri

    nel bianco iato dell’inverno -
    come i miei vicini, senza trarre alcun piacere

    dai milioni di guance perfettamente cesellate
    che si posavano a ogni istante per sciogliere

    la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
    angeli piangenti su nature spente,

    Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
    Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
    E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
    La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,

    e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
    limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte

    pietre stolide e inespressive,
    Io guardavo e non capivo.

    Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
    per riversarmi fuori come un liquido

    tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
    Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.
    Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
    La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.

    Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
    un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.

    Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
    Ora assomiglio a una specie di dio

    e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
    pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono.

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  56. “Yes, I was infatuated with you: I am still. No one has ever heightened such a keen capacity of physical sensation in me. I cut you out because I couldn’t stand being a passing fancy. Before I give my body, I must give my thoughts, my mind, my dreams. And you weren’t having any of those.”
    — Sylvia Plath, The Unabridged Journals of Sylvia Plath

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  57. SHEEP IN FOG - SYLVIA PLATH

    The hills step off into whitness
    People or stars
    Regard me sadly, I disappoint them
    The train leaves a line of breath
    O slow
    Horse the colour of rust
    Hooves, dolorous bells -
    All morning the
    Morning has been blackening.
    A flower left out.
    My bones hold a stillness, the far
    Fields melt my heart.
    They threaten
    To let me through to a heaven
    Starless and fatherless, a dark water.

    PECORE NELLA NEBBIA - SYLVIA PLATH

    Le colline digradano nel bianco.
    Persone o stelle
    Mi guardano con tristezza, le deludo.
    Il treno si lascia dietro una riga di fiato.
    Oh lento
    cavallo color della ruggine,
    zoccoli, dolorose campane ---
    E' tutta mattina che
    la mattina sta annerendo,
    un fiore lasciato fuori.
    Le mie ossa racchiudono un'immobilità, i campi
    lontani mi sciolgono il cuore.
    Minacciano
    di lasciarmi entrare in un cielo
    senza stelle né padre, un'acqua scura.

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  58. "A Winter Ship" by Sylvia Plath

    At this wharf there are no grand landings to speak of.
    Red and orange barges list and blister
    Shackled to the dock, outmoded, gaudy,
    And apparently indestructible.
    The sea pulses under a skin of oil.
    A gull holds his pose on a shanty ridgepole,
    Riding the tide of the wind, steady
    As wood and formal, in a jacket of ashes,
    The whole flat harbor anchored in
    The round of his yellow eye-button.
    A blimp swims up like a day-moon or tin
    Cigar over his rink of fishes.
    The prospect is dull as an old etching.
    They are unloading three barrels of little crabs.
    The pier pilings seem about to collapse
    And with them that rickety edifice
    Of warehouses, derricks, smokestacks and bridges
    In the distance. All around us the water slips
    And gossips in its loose vernacular,
    Ferrying the smells of cod and tar.
    Farther out, the waves will be mouthing icecakes —-
    A poor month for park-sleepers and lovers.
    Even our shadows are blue with cold.
    We wanted to see the sun come up
    And are met, instead, by this iceribbed ship,
    Bearded and blown, an albatross of frost,
    Relic of tough weather, every winch and stay
    Encased in a glassy pellicle.
    The sun will diminish it soon enough:
    Each wave-tip glitters like a knife.

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  59. "Cinderella" by Sylvia Plath

    The prince leans to the girl in scarlet heels,
    Her green eyes slant, hair flaring in a fan
    Of silver as the rondo slows; now reels
    Begin on tilted violins to span
    The whole revolving tall glass palace hall
    Where guests slide gliding into light like wine;
    Rose candles flicker on the lilac wall
    Reflecting in a million flagons' shine,
    And glided couples all in whirling trance
    Follow holiday revel begun long since,
    Until near twelve the strange girl all at once
    Guilt-stricken halts, pales, clings to the prince
    As amid the hectic music and cocktail talk
    She hears the caustic ticking of the clock.

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  60. L’ACROBATA di Sylvia Plath

    Ogni notte quest’agile giovane donna
    Riposa fra lenzuoli
    A brandelli sottili come fiocchi di neve
    Finché un sogno non ne solleva il corpo
    Dal letto ad ardue sfide
    D’acrobazie sul filo.


    Tutta la notte in equilibrio
    Con destrezza da gatta sulla perigliosa fune
    In una sala gigantesca
    Balla delicate danze
    Allo schiocco di frusta ed al ruggito
    Degli ordini del suo maestro.

    Dorata, avanza precisa
    Attraverso quell’aria greve.
    Un passo e si ferma, sospesa
    Al fulcro del suo gesto
    Mentre grossi pesi le cadono attorno
    Ed incominciano a volteggiare.

    Addestrata a tal punto, la ragazza
    Para l’affondo e la minaccia
    Di qualunque oscillazione;
    Con un improvviso slancio e una piroetta
    Chiama l’applauso, la corda luccicante
    Le affonda affilata in ogni coraggioso arto.

    Poi, finito il difficile esercizio, fa un inchino
    E serenamente si lancia giù
    attraverso il pavimento di vetro
    in salvo verso casa; ma, roteando occhi allenati
    un domatore di tigri ed un pagliaccio sogghignante
    si accovacciano, lanciandole palle nere.

    Alti carri rotolano dentro
    Con tuono di leoni; tutto s’adopera
    Ed avanza sgraziato
    Per intrappolare questa oltraggiosa leggera regina
    E sbriciolare in atomi
    Le sue nove vite cosi inafferrabili.

    Ma lei s’accorge dello stratagemma
    Di pesi neri, palle nere e carri neri
    E con un’ultima abile finta salta
    Attraverso il cerchio del suo rischioso sogno
    Per balzar su seduta del tutto desta
    All’arrestarsi dello squillo della sveglia.

    Ora come punizione per il suo talento
    Di giorno è costretta a camminare temendo
    I guanti d’acciaio del traffico, terrorizzata
    Dalla paura che, per dispetto, tutta
    L’elaborata impalcatura del cielo sopra la sua testa
    Cada alla fine fragorosamente sulla sua fortuna.


    *********

    AERIALIST

    Each night this adroit young lady
    Lies among sheets
    Shredded fine as snowflakes
    Until dream takes her body
    From bed to strict tryouts
    In tightrope acrobatics.

    Nightly she balances
    Cat-clever on perilous wire
    In a gigantic hall,
    Footing her delicate dances
    To whipcrack and roar
    Which speak her maestro’s will.

    Gilded, coming correct
    Across that sultry air.
    She steps, halts, hung
    In dead center of her act
    As great weights drop all about her
    And commence to swing.

    Lessoned thus, the girl
    Parries the lunge and menace
    Of every pendulum;
    By deft duck and twirl
    She draws applause; bright harness
    Bites keen into each brave limb.

    Then, this tough stint done, she curtsies
    And serenely plummets down
    To traverse glass floor
    And get safe home; but, turning with trained eyes,
    Tiger-tamer and grinning clown
    Squat, bowling black balls at her.

    Tall trucks roll in
    With a thunder like lions; all aims
    And lumbering moves
    To trap this outrageous nimble queen
    And shatter to atoms
    Her nine so slippery lives.

    Sighting the stratagem
    Of black weight, black ball, black truck,
    With a last artful dodge she leaps
    Through hoop of that hazardous dream
    To sit up stark awake
    As the loud alarmclock stops.

    Now as penalty for her skill,
    By day she must walk in dread
    Steel gaunticts of traffic, terror-struck
    Lest, out of spite, the whole
    Elaborate scaffold of sky overhead
    Fall racketing finale on her luck.

    (traduzione di Orsola Puecher)

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  61. Kindness by Sylvia Plath

    Kindness glides about my house.
    Dame Kindness, she is so nice!
    The blue and red jewels of her rings smoke
    In the windows, the mirrors
    Are filling with smiles.
    What is so real as the cry of a child?
    A rabbit's cry may be wilder
    But it has no soul.
    Sugar can cure everything, so Kindness says.
    Sugar is a necessary fluid,
    Its crystals a little poultice.
    O kindness, kindness
    Sweetly picking up pieces!
    My Japanese silks, desperate butterflies,
    May be pinned any minute, anesthetized.
    And here you come, with a cup of tea
    Wreathed in steam.
    The blood jet is poetry,
    There is no stopping it.
    You hand me two children, two roses.

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  62. Elspeth Menzies22/07/15, 12:36

    "Morning Song" by Sylvia Plath (1932 - 1963)
    Love set you going like a fat gold watch.
    The midwife slapped your footsoles, and your bald cry
    Took its place among the elements.
    Our voices echo, magnifying your arrival. New statue.
    In a drafty museum, your nakedness
    Shadows our safety. We stand round blankly as walls.
    I’m no more your mother
    Than the cloud that distills a mirror to reflect its own slow
    Effacement at the wind’s hand.
    All night your moth-breath
    Flickers among the flat pink roses. I wake to listen:
    A far sea moves in my ear.
    One cry, and I stumble from bed, cow-heavy and floral
    In my Victorian nightgown.
    Your mouth opens clean as a cat’s. The window square
    Whitens and swallows its dull stars. And now you try
    Your handful of notes;
    The clear vowels rise like balloons.
    *
    Celebrating mothers and daughters, mothers and sons, grandmothers and grandchildren, Motherhood is a glorious, wonderfully intimate tribute to the first love in every reader’s life.
    From tenth-century Japan’s Izumi Shikibu, colonial America’s Anne Bradstreet, and Victorian England’s Elizabeth Barrett Browning to Israel’s Yehuda Amichai, Ireland’s Paul Muldoon, and Russia’s Anna Akhmatova, poets across the centuries and around the world have immortalized this elemental relationship. Among the more than seventy poets in this anthology, Audre Lorde recalls “How the days went / While you were blooming within me”; Jorie Graham muses on her mother’s sewing box; Allen Ginsberg says goodbye in “Kaddish”; and Langston Hughes invokes a mother’s empowering example: “Don’t you fall now— / For I’se still goin’, honey, / I’se still climbin’, / And life for me ain’t been no crystal stair.” From Emily Brontë’s “Upon Her Soothing Breast” and Seamus Heaney’s “Mother of the Groom” to Sylvia Plath’s “Morning Song” and Frank O’Hara’s “Ave Maria,” the more than one hundred poems collected here enshrine the miracle of motherhood and the richness of feeling and experience it inspires.

    Everyman's library

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    1. Ecco la traduzione:

      CANTO DEL MATTINO - SYLVIA PLATH

      L'amore ti ha messo in moto come un grasso orologio d'oro.
      La levatrice ti ha schiaffeggiato sotto i piedi e il tuo nudo grido
      ha preso il suo posto fra gli elementi.
      Le nostre voci echeggiano, esaltando il tuo arrivo. Nuova statua.
      In un museo pieno di correnti, la tua nudità
      è ombra sulla nostra sicurezza. Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti.
      Non sono tua madre più di quanto
      lo sia la nuvola che distilla uno specchio per riflettere la propria lenta
      cancellazione per mano del vento.
      Per tutta la notte il tuo respiro di falena
      tremola tra le piatte rose rosa. Veglio per ascoltare:
      un mare lontano si muove nel mio orecchio.
      Un grido, e scendo dal letto incespicando, pesante come una mucca e floreale
      nella mia camicia da notte vittoriana.
      La tua bocca si apre pulita come quella di un gatto. Il riquadro della finestra
      s'imbianca e inghiotte le sue opache stelle. E ora tu provi
      la tua manciata di note;
      Le vocali chiare salgono come palloncini.

      19 febbraio 1961

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  63. TULIPANI - SYLVIA PLATH
    (di tittideluca)

    I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
    Guarda com’è tutto bianco, quieto, coperto di neve.
    Sto imparando la pace, distesa quietamente, sola,
    come la luce posa su queste pareti bianche, questo letto, queste mani.
    Non sono nessuno; non ho nulla a che fare con le esplosioni.
    Ho consegnato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere,
    la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.

    Mi hanno sistemato la testa fra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
    come un occhio fra due palpebre bianche che non vogliono chiudersi.
    Stupida pupilla, deve assorbire tutto.
    Le infermiere passano e ripassano, non danno disturbo,
    passano come gabbiani diretti nell’interno, in cuffia bianca,
    le mani affaccendate, ciascuna identica all’altra,
    sicché è impossibile dire quante sono.

    Il mio corpo è un ciottolo per loro, lo accudiscono come l’acqua
    accudisce i ciottoli su cui deve scorrere, lisciandoli piano.
    Mi portano il torpore nei loro aghi lucenti, mi portano il sonno.
    Ora che ho perso me stessa , sono stanca di bagagli —
    la mia ventiquattrore di vernice come un portapillole nero,
    mio marito e mia figlia che sorridono dalla foto di famiglia;
    i loro sorrisi mi si agganciano alla pelle, ami sorridenti.

    Ho lasciato scivolar via le cose, cargo di trent’anni
    ostinatamente attaccata al mio nome e al mio indirizzo.
    Con l’ovatta mi hanno ripulito dei miei legami affettivi.
    Impaurita e nuda sulla barella col cuscino di plastica verde
    ho visto il mio servizio da tè, i cassettoni della biancheria, i miei libri
    affondare e sparire, e l’acqua mi ha sommerso.
    Sono una suora, adesso, non sono mai stata così pura.

    Io non volevo fiori, volevo solamente
    giacere con le palme arrovesciate ed essere vuota, vuota.
    Come si è liberi, non ti immagini quanto—
    È una pace così grande che ti stordisce,
    e non chiede nulla, una targhetta col nome, poche cose.
    È a questo che si accostano i morti alla fine; li immagino
    chiudervi sopra la bocca come un’ostia della Comunione.

    Sono troppo rossi anzitutto, questi tulipani, mi fanno male.
    Li sentivo respirare già attraverso la carta, un respiro
    sommesso, attraverso le fasce bianche, come un neonato spaventoso.
    Il loro rosso parla alla mia ferita, vi corrisponde.
    Sono subdoli: sembrano galleggiare, e invece sono un peso,
    mi agitano con le loro lingue improvvise e il loro colore,
    dodici rossi piombi intorno al collo.

    Nessuno mi osservava prima, ora sono osservata.
    I tulipani si volgono a me, e dietro a me alla finestra,
    ove una volta al giorno la luce si allarga lenta e lenta si assottiglia,
    e io mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
    tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
    e non ho volto, ho voluto cancellarmi.
    I vividi tulipani mangiano il mio ossigeno.

    Prima del loro arrivo l’aria era calma,
    andava e veniva, un respiro dopo l’altro, senza dar fastidio.
    Poi i tulipani l’hanno riempita come un frastuono.
    Ora s’impiglia e vortica intorno a loro così come un fiume
    s’impiglia e vortica intorno a un motore affondato rosso di ruggine.
    Concentrano la mia attenzione, che era felice
    di vagare e riposare senza farsi coinvolgere.

    Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
    I tulipani dovrebbero essere in gabbia come animali pericolosi,
    si aprono come la bocca di un grande felino africano,
    e io mi accorgo del mio cuore, che apre e chiude
    la sua coppa di fiori rossi per l’amore che mi porta.
    L’acqua che sento sulla lingua è calda e salata, come il mare,
    e viene da un Paese lontano quanto la salute.

    Sylvia Plath

    18 marzo 1961

    (Traduzione di Anna Ravano)

    da “Ariel”, in “I capolavori di Sylvia Plath”, Mondadori, Milano, 2004

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    1. TULIPS - SYLVIA PLATH

      The tulips are too excitable, it is winter here.
      Look how white everything is, how quiet, how snowed-in
      I am learning peacefulness, lying by myself quietly
      As the light lies on these white walls, this bed, these hands.
      I am nobody; I have nothing to do with explosions.
      I have given my name and my day-clothes up to the nurses
      And my history to the anaesthetist and my body to surgeons.

      They have propped my head between the pillow and the sheet-cuff
      Like an eye between two white lids that will not shut.
      Stupid pupil, it has to take everything in.
      The nurses pass and pass, they are no trouble,
      They pass the way gulls pass inland in their white caps,
      Doing things with their hands, one just the same as another,
      So it is impossible to tell how many there are.

      My body is a pebble to them, they tend it as water
      Tends to the pebbles it must run over, smoothing them gently.
      They bring me numbness in their bright needles, they bring me sleep.
      Now I have lost myself I am sick of baggage—
      My patent leather overnight case like a black pillbox,
      My husband and child smiling out of the family photo;
      Their smiles catch onto my skin, little smiling hooks.

      I have let things slip, a thirty-year-old cargo boat
      Stubbornly hanging on to my name and address.
      They have swabbed me clear of my loving associations.
      Scared and bare on the green plastic-pillowed trolley
      I watched my teaset, my bureaus of linen, my books
      Sink out of sight, and the water went over my head.
      I am a nun now, I have never been so pure.

      I didn’t want any flowers, I only wanted
      To lie with my hands turned up and be utterly empty.
      How free it is, you have no idea how free—
      The peacefulness is so big it dazes you,
      And it asks nothing, a name tag, a few trinkets.
      It is what the dead close on, finally; I imagine them
      Shutting their mouths on it, like a Communion tablet.

      The tulips are too red in the first place, they hurt me.
      Even through the gift paper I could hear them breathe
      Lightly, through their white swaddlings, like an awful baby.
      Their redness talks to my wound, it corresponds.
      They are subtle: they seem to float, though they weigh me down,
      Upsetting me with their sudden tongues and their colour,
      A dozen red lead sinkers round my neck.

      Nobody watched me before, now I am watched.
      The tulips turn to me, and the window behind me
      Where once a day the light slowly widens and slowly thins,
      And I see myself, flat, ridiculous, a cut-paper shadow
      Between the eye of the sun and the eyes of the tulips,
      And I have no face, I have wanted to efface myself.
      The vivid tulips eat my oxygen.

      Before they came the air was calm enough,
      Coming and going, breath by breath, without any fuss.
      Then the tulips filled it up like a loud noise.
      Now the air snags and eddies round them the way a river
      Snags and eddies round a sunken rust-red engine.
      They concentrate my attention, that was happy
      Playing and resting without committing itself.

      The walls, also, seem to be warming themselves.
      The tulips should be behind bars like dangerous animals;
      They are opening like the mouth of some great African cat,
      And I am aware of my heart: it opens and closes
      Its bowl of red blooms out of sheer love of me.
      The water I taste is warm and salt, like the sea,
      And comes from a country far away as health.

      Sylvia Plath

      18 March 1961

      da “Ariel”, London, Faber and Faber, 1965

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  64. SYLVIA PLATH’S HOLIDAY COOKING TIPS.


    BY ARABELLA ANDERSON

    - - - -
    [Originally published November 26, 2014.]

    - - -
    Stuffing

    You’ll want to use lots of herbs, herbs from the ground—
    The ground, dirt between my fingers.
    Dirt—our mortal blanket.

    Turkey

    Make sure you tender the meat.
    Care for it as you would a child.
    Sadness tastes bitter on anxious lips.

    Desserts

    To watch the smiles erupt—
    As saccharine doses delight them
    Is sweeter than the purest honey

    Drinks

    Fizzy potions to toast the joyous moments
    Or to numb the pain caused by those
    Who call themselves “family.”

    Leftovers

    The cauldron of morning
    Replenish your hunger with the effort of meals past
    That new taste is cold realization.

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  65. “I felt overstuffed and dull and disappointed, the way I always do the day after Christmas, as if whatever it was the pine boughs and the candles and the silver and gilt-ribboned presents and the birch-log fires and the Christmas turkey and the carols at the piano promised never came to pass.”
    --from "The Bell Jar" (1963)

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  66. “Eternity bores me,
    I never wanted it.”
    -- from “Years" (1962) by Sylvia Plath

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  67. "Then the worst thing happened, that big, dark, hunky boy, the only one there huge enough for me, who had been hunching around over women, and whose name I had asked the minute I had come into the room, but no one told me, came over and was looking hard in my eyes and it was Ted Hughes. . . . And then it came to the fact that I was all there, wasn't I, and I stamped and screamed yes . . . and I was stamping and he was stamping on the floor, and then he kissed me bang smash on the mouth and ripped my hair band off, my lovely red hairband scarf which had weathered the sun and much love, and whose like I shall never again find, and my favorite silver earrings: hah, I shall keep, he barked. And when he kissed my neck I bit him long and hard on the cheek, and when we came out of the room, blood was running down his face."
    -- Sylvia Plath, writing in her journal on this day in 1956, describing her first meeting with Ted Hughes
    Source: http://www.todayinliterature.com/

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  68. Fever 103°- Sylvia Plath

    Pure? What does it mean?
    The tongues of hell
    Are dull, dull as the triple

    Tongues of dull, fat Cerberus
    Who wheezes at the gate. Incapable
    Of licking clean

    The aguey tendon, the sin, the sin.
    The tinder cries.
    The indelible smell

    Of a snuffed candle!
    Love, love, the low smokes roll
    From me like Isadora’s scarves, I’m in a fright

    One scarf will catch and anchor in the wheel.
    Such yellow sullen smokes
    Make their own element. They will not rise,

    But trundle round the globe
    Choking the aged and the meek,
    The weak

    Hothouse baby in its crib,
    The ghastly orchid
    Hanging its hanging garden in the air,

    Devilish leopard!
    Radiation turned it white
    And killed it in an hour.

    Greasing the bodies of adulterers
    Like Hiroshima ash and eating in.
    The sin. The sin.

    Darling, all night
    I have been flickering, off, on, off, on.
    The sheets grow heavy as a lecher’s kiss.

    Three days. Three nights.
    Lemon water, chicken
    Water, water make me retch.

    I am too pure for you or anyone.
    Your body
    Hurts me as the world hurts God. I am a lantern——

    My head a moon
    Of Japanese paper, my gold beaten skin
    Infinitely delicate and infinitely expensive.

    Does not my heat astound you. And my light.
    All by myself I am a huge camellia
    Glowing and coming and going, flush on flush.

    I think I am going up,
    I think I may rise——
    The beads of hot metal fly, and I, love, I

    Am a pure acetylene
    Virgin
    Attended by roses,

    By kisses, by cherubim,
    By whatever these pink things mean.
    Not you, nor him

    Not him, nor him
    (My selves dissolving, old whore petticoats)——
    To Paradise.



    20 October 1962
    da “Ariel”, London, Faber and Faber, 1965

    (by tittideluca)


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    1. Febbre a 40° – Sylvia Plath

      Pura? Che vuol dire?
      Le lingue dell’inferno
      sono ottuse, ottuse come le tre lingue

      dell’ottuso e grasso Cerbero
      che ansima all’ingresso. Incapaci
      di pulire leccando

      il tendine febbrile, il peccato, il peccato.
      L’esca da fuoco stride.
      L’indelebile odore

      di una candela soffocata!
      Amore, amore, i bassi fumi si svolgono
      da me come le sciarpe di Isadora, ho il terrore

      che una s’impigli e resti presa nella ruota.
      Fumi così gialli e tetri
      creano il proprio elemento. Invece di levarsi

      rotolano intorno al globo
      soffocando i vecchi e i mansueti,
      il gracile

      bimbo di serra nella culla,
      l’orrida orchidea
      che appende il suo giardino pensile nell’aria,

      diabolico leopardo!
      La radiazione l’ha resa bianca
      e in un’ora l’ha uccisa.

      Ungono i corpi degli adulteri
      come cenere di Hiroshima e li corrodono.
      Il peccato. Il peccato.

      Tesoro, è tutta la notte
      che vacillo, spenta, accesa, spenta, accesa.
      Le lenzuola si fanno grevi come il bacio di un vizioso.

      Tre giorni. Tre notti.
      Acqua e limone, acqua
      di pollo, acqua mi fanno vomitare.

      Sono troppo pura per te o per chiunque.
      Il tuo corpo
      mi fa male come il mondo fa male a Dio. Sono una lanterna——

      la mia testa una luna
      di carta giapponese, la mia pelle oro in foglia
      infinitamente delicata e infinitamente costosa.

      Non ti sbalordisce il mio calore? E la mia luce.
      Tutta sola, sono un’enorme camelia
      che arde e viene e va, vampa su vampa.

      Sto sollevandomi, credo.
      Credo che salirò——
      I grani di metallo bollente volano, e io, amore, io

      sono una pura
      vergine
      di acetilene, scortata da rose,

      da baci e cherubini,
      da tutte queste strane cose rosa.
      Non tu, né lui,

      non lui, né lui
      (i miei io che si dissolvono, vecchie gonnelle di puttana)——
      verso il Paradiso.

      Sylvia Plath

      20 ottobre 1962

      (Traduzione di Anna Ravano)

      da “Ariel”, in “I capolavori di Sylvia Plath”, Mondadori, Milano, 2004

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  69. Electra on Azalea Path - Sylvia Plath

    The day you died I went into the dirt,
    Into the lightless hibernaculum
    Where bees, striped black and gold, sleep out the blizzard
    Like hieratic stones, and the ground is hard.
    It was good for twenty years, that wintering -
    As if you never existed, as if I came
    God-fathered into the world from my mother's belly:
    Her wide bed wore the stain of divinity.
    I had nothing to do with guilt or anything
    When I wormed back under my mother's heart.

    Small as a doll in my dress of innocence
    I lay dreaming your epic, image by image.
    Nobody died or withered on that stage.
    Everything took place in a durable whiteness.
    The day I woke, I woke on Churchyard Hill.
    I found your name, I found your bones and all
    Enlisted in a cramped stone askew by an iron fence.

    In this charity ward, this poorhouse, where the dead
    Crowd foot to foot, head to head, no flower
    Breaks the soil. This is Azalea path.
    A field of burdock opens to the south.
    Six feet of yellow gravel cover you.
    The artificial red sage does not stir
    In the basket of plastic evergreens they put
    At the headstone next to yours, nor does it rot,
    Although the rains dissolve a bloody dye:
    The ersatz petals drip, and they drip red.

    Another kind of redness bothers me:
    The day your slack sail drank my sister's breath
    The flat sea purpled like that evil cloth
    My mother unrolled at your last homecoming.
    I borrow the silts of an old tragedy.
    The truth is, one late October, at my birth-cry
    A scorpion stung its head, an ill-starred thing;
    My mother dreamed you face down in the sea.

    The stony actors poise and pause for breath.
    I brought my love to bear, and then you died.
    It was the gangrene ate you to the bone
    My mother said: you died like any man.
    How shall I age into that state of mind?
    I am the ghost of an infamous suicide,
    My own blue razor rusting at my throat.
    O pardon the one who knocks for pardon at
    Your gate, father - your hound-bitch, daughter, friend.
    It was my love that did us both to death.

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    1. Elettra sul Sentiero delle Azalee - Sylvia Plath

      Il giorno in cui sei morto sono entrata nello sporco,
      dentro l'ibernacolo privo di luce
      dove le api, a strisce nere e dorate, dormono al riparo dalla bufera
      come pietre ieratiche, e il pavimento è duro.
      È andato bene per vent'anni, quello svernare-
      come se tu non fossi mai esistito, come se io fossi venuta al mondo
      con Dio come padre dal ventre di mia madre:
      il suo ampio letto portava la macchia della divinità.
      Non avevo niente a che fare con la colpa o altro
      quando sono tornata a insinuarmi nel cuore di mia madre.
      Piccola come una bambola nel mio vestito d’innocenza
      mi stendo sognando la tua epopea, immagine per immagine.
      Nessuno è morto o si è indebolito su quel palco.
      Tutto ha avuto luogo in un durevole biancore.
      Il giorno in cui mi sono svegliata, mi sono svegliata sulla Collina del Cimitero.
      Ho trovato il tuo nome, ho trovato le tue ossa e tutti
      gli arruolati in una soffocante necropoli,
      la tua pietra punteggiata, deformata da un recinto di ferro.
      Nel reparto della carità, quest’ospizio per i poveri, dove i morti
      si ammassano piede contro piede, testa contro testa, nessun fiore
      penetra il terreno. Questo è il Sentiero delle Azalee.
      Un campo di cardi si apre a sud.
      Sei piedi di ghiaia gialla ti coprono.
      L’artificiale salvia rossa non si muove
      nel cestino dei sempreverdi di plastica che posano
      sulla lapide accanto alla tua, né marcisce,
      sebbene le piogge dissolvano una tinta sanguigna:
      i petali del surrogato gocciolano, e gocciolano rosso.
      Un altro tipo di rosso mi infastidisce:
      il giorno in cui la tua vela negligente ha assorbito il respiro di mia sorella
      il mare piatto si è tinto di porpora come quella stoffa maligna
      che mia madre ha srotolato al tuo ultimo ritorno a casa.
      Ho preso in prestito le stampelle di un’antica tragedia.
      La verità è che, un tardo ottobre, al mio vagito,
      uno scorpione ha punto la sua testa, una cosa nata sotto una cattiva stella;
      mia madre ha sognato che tu fronteggiavi il mare.
      Gli attori insensibili osservano la compostezza e le pause per il respiro.
      Io ho messo in pratica il mio amore, e poi tu sei morto.
      È stata la cancrena a mangiarti fino all’osso
      ha detto mia madre, sei morto come qualsiasi altro uomo.
      Come potrò invecchiare in questa condizione mentale?
      Io sono il fantasma di un suicidio infame,
      la mia lametta blu che si arrugginisce nella mia gola.
      Oh perdona colei che bussa alla tua porta
      implorando perdono, padre - la tua cagna da caccia, figlia, amica.
      È stato il mio amore che ci ha portati entrambi alla morte.

      Sylvia Plath, da Collected Poems
      Traduzione di Bianca Sorrentino

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  70. “I can never read all the books I want; I can never be all the people I want and live all the lives I want. I can never train myself in all the skills I want. And why do I want? I want to live and feel all the shades, tones and variations of mental and physical experience possible in my life. And I am horribly limited.”
    ― Sylvia Plath, The Unabridged Journals of Sylvia Plath

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  71. "The Colossus" by Sylvia Plath

    I shall never get you put together entirely,
    Pieced, glued, and properly jointed.
    Mule-bray, pig-grunt and bawdy cackles
    Proceed from your great lips.
    It's worse than a barnyard.
    Perhaps you consider yourself an oracle,
    Mouthpiece of the dead, or of some god or other.
    Thirty years now I have labored
    To dredge the silt from your throat.
    I am none the wiser.
    Scaling little ladders with glue pots and pails of Lysol
    I crawl like an ant in mourning
    Over the weedy acres of your brow
    To mend the immense skull-plates and clear
    The bald, white tumuli of your eyes.
    A blue sky out of the Oresteia
    Arches above us. O father, all by yourself
    You are pithy and historical as the Roman Forum.
    I open my lunch on a hill of black cypress.
    Your fluted bones and acanthine hair are littered
    In their old anarchy to the horizon-line.
    It would take more than a lightning-stroke
    To create such a ruin.
    Nights, I squat in the cornucopia
    Of your left ear, out of the wind,
    Counting the red stars and those of plum-color.
    The sun rises under the pillar of your tongue.
    My hours are married to shadow.
    No longer do I listen for the scrape of a keel
    On the blank stones of the landing.

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    1. IL COLOSSO - SYLVIA PLATH

      Non riuscirò mai a ricomporti interamente,
      con tutti i pezzi ben congiunti e incollati.
      Ragli, grugniti, osceni schiamazzi
      escono dalle tue vaste labbra.
      Neanche fossimo in un’aia.

      Tu forse ti consideri un oracolo,
      portavoce dei morti, o di chissà quale dio.
      Sono trent’anni ormai che mi affatico
      per cavarti la melma dalla gola.
      E ne so quanto prima.

      Mi arrampico su per la scaletta a pioli con barattoli di colla e di lisolo,
      striscio come formica in lutto
      sugli acri della tua fronte invasi dalle erbacce
      per riparare le immense placche del tuo cranio e ripulire
      i bianchi tumuli vuoti dei tuoi occhi.

      Un cielo azzurro uscito dall’Orestea
      si incurva su di noi. Oh padre mio, tutto solo
      sei essenziale e storico come il Foro Romano.
      Tiro fuori il mio pranzo su una collina di cipressi neri.
      Le tue ossa incise e i capelli d’acanto sono sparsi

      fino all’orizzonte nell’antica anarchia.
      Ci vorrebbe ben altro che un fulmine
      per creare tanta rovina.
      Di notte mi accoccolo nella cornucopia
      del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento,

      e conto le stelle rosse e quelle color prugna.
      Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua.
      Le mie ore sono sposate all’ombra.
      Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia
      sulle pietre nude dell’approdo.

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  72. "So, now I shall talk every night. To myself. To the moon. I shall walk, as I did tonight, jealous of my loneliness, in the blue-silver of the cold moon, shining brilliantly on the drifts of fresh-fallen snow, with the myriad sparkles. I talk to myself and look at the dark trees, blessedly neutral. So much easier than facing people, than having to look happy, invulnerable, clever. With masks down, I walk, talking to the moon, to the neutral impersonal force that does not hear, but merely accepts my being. And does not smite me down."
    Sylvia Plath
    (Book: The Journals of Sylvia Plath)
    Thanks to Engish Literature

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