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mercoledì 27 giugno 2012

Piccolo Manoscritto nella Bisaccia - Basho Matsuo



(Oi no Kobumi - 1688 ca.)

Silenzio:
graffia la pietra
la voce delle cicale.


Basho è considerato il maestro degli haiku, componimenti di tre versi di 5, 7, 5 sillabe. Ogni haiku deve contenere il Kigo, ossia il riferimento alla stagione in cui è scritto, ad esempio un animale, un frutto, un fiore, una ricorrenza.
Questo libro è breve, un'ottantina di pagine di cui metà sono occupate dalle note, meravigliosamente esplicative ed indispensabili. Le tre brevi opere, Note di viaggio di un teschio, La canzone del vento autunnale, Piccolo manoscritto nella bisaccia, sono essenzialmente diari di viaggio in un'alternanza di poesia estetica e prosa minimale. Frasi e versi che ricreano atmosfera e sensazioni provate durante il cammino, in una splendida simbiosi con la natura ed il ritmo delle sue stagioni.


Basho Matsuo (Japan - 1644-1694)

lunedì 25 giugno 2012

Gente di Dublino - James Joyce




(Dubliners - 1914)

Le lacrime si accumularono fitte nei suoi occhi e, nella semioscurità, immaginò la figura di un giovane, là, sotto un albero gocciolante di pioggia. Altre figure erano vicine. La sua anima si avvicinava alle regioni abitate dalla immensa folla dei morti. Egli era cosciente della loro vana e vacillante esistenza, ma non poteva afferrarla. La sua stessa identità svaniva in un mondo grigio e implacabile; la terra stessa che quei morti avevano un tempo governata, e in cui avevano vissuto. si dissolveva e si disperdeva. Alcuni leggeri colpi sul vetro lo fecero voltare verso la finestra. Era tornato a nevicare.


Nessuno di questi racconti ha avuto l'epilogo che speravo. Sono una quindicina, ambientati tutti a Dublino, o poco oltre. Joyce ha una narrazione realista, disincantata e amara sulla sua gente, che vede rassegnata e accomunata in una paralisi che colpisce ogni aspetto pratico, morale, intellettuale e sociale di una città stagnante. Solo nell'ultimo racconto, I morti, da cui ho preso le righe di apertura, Joyce lascia intravedere uno spiraglio.
Gabriel è un morto virtuale, un essere inutile e invisibile agli occhi della moglie, per la quale invece, sia pure nel ricordo, è vivissimo il ragazzino morto per amore suo vent'anni prima. Questa rivelazione travolge Gabriel, ma lo costringe anche ad esaminare il proprio fallimento.



                                                               James Joyce - Dublino




James Joyce e Sylvia Beach all'esterno della libreria antiquaria parigina "Shakespeare and Company" nel 1921, ancora al n° 8 di rue Dupuytren poco prima del trasferimento al 12 di rue de l'Odéon.
La sua proprietaria, la Beach, pubblicò la prima edizione dell'Ulisse nel 1922.
(foto archivio Daniele Mugnaini)

giovedì 21 giugno 2012

Belfagor Arcidiavolo - Niccolò Machiavelli




(Belfagor Arcidiavolo - 1518)

La metto per intero, tanto la si legge tranquillamente in un quarto d'ora. Avvertimento importante, non c'entra nulla col forse più famoso "Belfagor, il fantasma del Louvre" che non ci fece dormire da ragazzini. Questa è invece  l'unica novella scritta da Machiavelli, di fatto una favola esilarante, fustigatrice dei costumi e intrisa di misoginia, ma tanto si sa... tra diavoli ci si intende.



Leggesi nelle antiche memorie delle fiorentine cose come già s'intese per relazione, di alcuno santissimo uomo, la cui vita, apresso qualunque in quelli tempi viveva, era celebrata, che, standosi abstratto nelle sue orazioni, vide mediante quelle come, andando infinite anime di quelli miseri mortali, che nella disgrazia di Dio morivano all'inferno, tutte o la maggior parte si dolevono, non per altro che per avere preso moglie essersi a tanta infelicità condotte. Donde che Minos e Radamanto insieme con gli altri infernali giudici ne avevano maraviglia grandissima. E non potendo credere queste calunnie che costoro al sesso femmineo davano essere vere, e cresciendo ogni giorno le querele, e avendo di tutto fatto a Plutone conveniente rapporto, fu deliberato per lui di avere sopra questo caso con tutti gl'infernali principi maturo esamine, e pigliarne dipoi quel partito che fussi giudicato migliore per scoprire questa fallacia, o conoscerne in tutto la verità. Chiamatogli adunque a concilio, parlò Plutone in questa sentenza: "Ancora che io, dilettissimi miei, per celeste disposizione e fatale sorte al tutto inrevocabile possegga questo regno, e che per questo io non possa essere obligato ad alcuno iudicio o celeste o mondano, nondimeno, perché gli è maggiore prudenza di quelli che possono più sottomettersi più alle leggi e più stimare l'altrui iudizio: ho deliberato essere consigliato da voi come, in uno caso il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io mi debba governare. Perché dicendo tutte l'anime degli uomini, che vengono nel nostro regno esserne stato cagione la moglie, e parendoci questo impossibile, dubitiamo che dando iudizio sopra questa relazione ne possiamo essere calunniati come troppo creduli, e non ne dando come manco severi e poco amatori della iustizia. E perché l'uno peccato è da uomini leggieri e l'altro da ingiusti, e volendo fuggire quegli carichi che da l'uno e l'altro potrebbono dependere e non trovandone il modo, vi abbiamo chiamati acciò che consigliandone ci aiutiate e siate cagione che questo regno, come per lo passato è vivuto sanza infamia, così per lo advenire viva". Parve a ciascheduno di quegli prìncipi il caso importantissimo e di molta considerazione: e concludendo tutti come egli era necessario scoprirne la verità, erano discrepanti del modo. Perché a chi pareva che si mandassi uno, a chi più, nel mondo, e sotto forma di uomo conoscessi personalmente questo vero: a molti altri occorreva potersi fare sanza tanto disagio, costringendo varie anime con varii tormenti a scoprirlo. Pure la maggior parte consigliando che si mandassi, s'indirizorno a questa opinione. E non si trovando alcuno che voluntariamente prehendessi questa impresa, deliberorno che la sorte fussi quella che lo dichiarassi. La quale cadde sopra Belfagor arcidiavolo, ma per lo adietro, avanti che cadessi di cielo, arcangelo. Il quale, ancora che male volentieri pigliassi questo carico, nondimeno constretto da lo imperio di Plutone si dispose a seguire quanto nel concilio si era determinato, e si obligò a quelle condizioni che infra loro solennemente erano state deliberate. Le quali erano: che subito a colui che fussi a questa commissione deputato fussino consegnati centomila ducati, con i quali doveva venire nel mondo, e sotto forma di uomo preender moglie e con quella vivere X anni, e di poi fingendo di morire tornarsene e per esperienza fare fede a i suoi superiori quali sieno i carichi e le incommodità del matrimonio. Dichiarossi ancora che durante detto tempo ei fussi sottoposto a tutti quegli disagi e mali che sono sottoposti gli uomini e che si tira drietro la povertà, le carcere, la malattia e ogni altro infortunio nel quale gli uomini incorrono, eccetto se con inganno o astuzia se ne liberassi. Presa adunque Belfagor la condizione e i danari, ne venne nel mondo: e ordinato di sua masnade cavagli e compagni, entrò onoratissimamente in Firenze: la quale città innanzi a tutte l'altre elesse per suo domicilio, come quella che gli pareva più atta a sopportare chi con arte usuraie essercitassi i suoi danari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E fattosi chiamare Roderigo di Castiglia, prese una casa a fitto nel Borgo d'Ognisanti; e perché non si potessino rinvenire le sue condizioni, disse essersi da piccolo partito di Spagna e itone in Soria, e avere in Aleppe guadagnato tutte le sue facultà: donde s'era poi partito per venire in Italia a preender donna in luoghi più umani e alla vita civile e allo animo suo più conformi. Era Roderigo bellissimo uomo e monstrava una età di trent’anni; e avendo in pochi giorni dimostro di quante richeze abundassi, e dando essempli di sé di essere umano e liberale, molti nobili cittadini che avevano assai figliole e pochi danari se gli offerivano: intra le quali tutte Roderigo scielse una bellissima fanciulla chiamata Onesta, figliuola di Amerigo Donati il quale ne aveva tre altre, insieme con tre figliuoli maschi tutti uomini, e quelle erano quasi che da marito: e benché fussi d'una nobilissima famiglia, e di lui fussi in Firenze tenuto buono conto, non dimanco era rispetto alla brigata avea e alla nobilità poverissimo. Fece Roderigo magnifiche e splendidissime noze: né lasciò indietro alcuna di quelle cose che in simili feste si desiderano. E essendo, per la legge che gli era stata data nello uscire d'inferno, sottoposto a tutte le passioni umane, subito cominciò a pigliare piacere degli onori e delle pompe del mondo e avere caro di essere laudato intra gli uomini, il che gli arrecava spesa non piccola. Oltra di questo non fu dimorato molto con la sua monna Onesta, che se ne innamorò fuori di misura: né poteva vivere qualunque volta la vedeva stare trista e avere alcuno dispiacere. Aveva mona Onesta portato in casa di Roderigo, insieme con la nobilità e con la belleza, tanta superbia che non ne ebbe mai tanta Lucifero; e Roderigo, che aveva provata l'una e l'altra, giudicava quella della moglie superiore; ma diventò di lunga maggiore, come prima quella si accorse dello amore che il marito le portava; e parendole poterlo da ogne parte signoreggiare, sanza alcuna piatà o rispetto lo comandava, né dubitava, quando da lui alcuna cosa gli era negata, con parole villane e iniuriose morderlo: il che era a Roderigo cagione di inestimabile noia. Purnondimeno il suocero, i frategli, il parentado, l'obligo del matrimonio e, sopratutto, il grande amore le portava gli faceva avere pazienza. Io voglio lasciare ire le grande spese, che, per contentarla, faceva in vestirla di nuove usanze e contentarla di nuove fogge, che continuamente la nostra città per sua naturale consuetudine varia; che fu necessitato, volendo stare in pace con lei, aiutare al suocero maritare l'altre sue figliuole: dove spese grossa somma di danari. Dopo questo, volendo avere bene con quella, gli convenne mandare uno de' frategli in Levante con panni, un altro in Ponente con drappi, all'altro aprire uno battiloro in Firenze: nelle quali cose dispensò la maggiore parte delle sue fortune. Oltre a di questo, ne' tempi de' carnasciali e de' San Giovanni, quando tutta la città per antica consuetudine festeggia e che molti cittadini nobili e richi con splendidissimi conviti si onorono, per non essere mona Onesta all'altre donne inferiore, voleva che il suo Roderigo con simili feste tutti gli altri superassi. Le quali cose tutte erano da lui per le sopradette cagioni sopportate; né gli sarebbono, ancora che gravissime, parute gravi a farle, se da questo ne fussi nata la quiete della casa sua e s'egli avessi potuto pacificamente aspettare i tempi della sua rovina. Ma gl'interveniva l'opposito, perché con le insopportabili spese, la insolente natura di lei infinite incommodità gli arrecava; e non erano in casa sua né servi né serventi che, nonché molto tempo, ma brevissimi giorni la potessino sopportare; donde ne nascevano a Roderigo disagi gravissimi per non potere tenere servo fidato che avessi amore alle cose sua; e, nonché altri, quegli diavoli, i quali in persona di famigli aveva condotti seco, più tosto elessono di tornarsene in inferno a stare nel fuoco, che vivere nel mondo sotto lo imperio di quella. Standosi adunque Roderigo in questa tumultuosa e inquieta vita, e avendo per le disordinate spese già consumato quanto mobile si aveva riserbato, cominciò a vivere sopra la speranza de' ritratti, che di Ponente e di Levante aspettava; e avendo ancora buono credito, per non mancare di suo grado, prese a cambio. E girandogli già molti marchi adosso, fu presto notato da quegli, che in simile esercizio in Mercato si travagliano. E essendo di già il caso suo tenero, vennero in un subito di Levante e di Ponente nuove come l'uno de' frategli di mona Onesta s'aveva giucato tutto il mobile di Roderigo, e che l'altro, tornando sopra una nave carica di sue mercatantie sanza essersi altrimenti assicurato, era insieme con quelle annegato. Né fu prima publicata questa cosa che i creditori di Roderigo si ristrinsono insieme; e giudicando che fussi spacciato, né possendo ancora scoprirsi per non essere venuto il tempo de' pagamenti loro, conclusono che fussi bene osservarlo così destramente, acciò che dal detto al fatto di nascoso non se ne fuggissi. Roderigo, da l'altra parte, non veggiendo al caso suo rimedio e sapiendo a quanto la leggie infernale lo costringeva, pensò di fuggirsi in ogni modo. E montato una mattina a cavallo, abitando propinquo alla Porta al Prato, per quella se ne uscì. Né prima fu veduta la partita sua, che il romore si levò fra i creditori, i quali ricorsi ai magistrati, non solamente con i cursori, ma popularmente si missono a seguirlo. Non era Roderigo, quando se gli lievò drieto il romore, dilungato da la città uno miglio; in modo che, vedendosi a male partito, deliberò, per fuggire più segreto, uscire di strada e atraverso per gli campi cercare sua fortuna. Ma sendo, a fare questo, impedito da le assai fosse, che atraversano il paese, né potendo per questo ire a cavallo, si misse a fuggire a piè e, lasciata la cavalcatura in su la strada, atraversando di campo in campo, coperto da le vigne e da' canneti, di che quel paese abonda, arrivò sopra Peretola a casa Gianmatteo del Brica, lavoratore di Giovanni del Bene, e a sorte trovò Gianmatteo che arrecava a casa da rodere a i buoi e se gli raccomandò promettendogli che se lo salvava dalle mani de' suoi nimici, i quali, per farlo morire in prigione, lo seguitavano, che lo farebbe ricco e gliene darebbe innanzi alla sua partita tale saggio che gli crederrebbe; e quando questo non facessi, era contento che esso proprio lo ponessi in mano a i suoi aversarii. Era Gianmatteo, ancora che contadino, uomo animoso, e giudicando non potere perdere a pigliare partito di salvarlo, liene promisse; e cacciatolo in uno monte di letame, quale aveva davanti a la sua casa, lo ricoperse con cannucce e altre mondiglie che per ardere aveva ragunate. Non era Roderigo apena fornito di nascondersi, che i suoi perseguitatori sopraggiunsono e, per spaventi che facessino a Gianmatteo, non trassono mai da lui che lo avessi visto; talché passati più innanzi, avendolo invano quel dì e quell'altro cerco, strachi se ne tornorno a Firenze. Gianmatteo adunque, cessato il romore e trattolo del loco dove era, lo richiese della fede data. Al quale Roderigo disse: "Fratello mio, io ho con teco un grande obligo e lo voglio in ogni modo sodisfare; e perché tu creda che io possa farlo, ti dirò chi io sono". E quivi gli narrò di suo essere e delle leggi avute allo uscire d'inferno e della moglie tolta; e di più gli disse il modo, con il quale lo voleva arichire: che insumma sarebbe questo, che, come ei sentiva che alcuna donna fussi spiritata, credessi lui essere quello che le fussi adosso; né mai se n'uscirebbe, s'egli non venissi a trarnelo; donde arebbe occasione di farsi a suo modo pagare da i parenti di quella. E, rimasi in questa conclusione, sparì via. Né passorno molti giorni, che si sparse per tutto Firenze, come una figliuola di messer Ambruogio Amidei, la quale aveva maritata a Bonaiuto Tebalducci, era indemoniata; né mancorno i parenti di farvi tutti quegli remedii, che in simili accidenti si fanno, ponendole in capo la testa di san Zanobi e il mantello di san Giovanni Gualberto. Le quali cose tutte da Roderigo erano uccellate. E, per chiarire ciascuno come il male della fanciulla era uno spirito e non altra fantastica imaginazione, parlava in latino e disputava delle cose di philosophia e scopriva i peccati di molti; intra i quali scoperse quelli d'uno frate che si aveva tenuta una femmina vestita ad uso di fraticino più di quattro anni nella sua cella: le quali cose facevano maravigliare ciascuno. Viveva pertanto messer Ambruogio mal contento; e avendo invano provati tutti i remedii, aveva perduta ogni speranza di guarirla, quando Gianmatteo venne a trovarlo e gli promisse la salute de la sua figliuola, quando gli voglia donare cinquecento fiorini per comperare uno podere a Peretola. Accettò messer Ambruogio il partito: donde Gianmatteo, fatte dire prima certe messe e fatte sua cerimonie per abbellire la cosa, si accostò a gli orechi della fanciulla e disse: "Roderigo, io sono venuto a trovarti perché tu mi osservi la promessa". Al quale Roderigo rispose: "Io sono contento. Ma questo non basta a farti ricco. E però, partito che io sarò di qui, enterrò nella figliuola di Carlo, re di Napoli, né mai n'uscirò sanza te. Fara'ti allora fare una mancia a tuo modo. Né poi mi darai più briga". E detto questo s'uscì da dosso a colei con piacere e ammirazione di tutta Firenze. Non passò dipoi molto tempo, che per tutta Italia si sparse l'accidente venuto a la figliuola del re Carlo. Né vi si trovando rimedio, avuta il re notizia di Gianmatteo, mandò a Firenze per lui. Il quale, arrivato a Napoli, dopo qualche finta cerimonia la guarì. Ma Roderigo, prima che partissi, disse: "Tu vedi, Gianmatteo, io ti ho osservato le promesse di averti arrichito. E però, sendo disobligo, io non ti sono più tenuto di cosa alcuna. Pertanto sarai contento non mi capitare più innanzi, perché, dove io ti ho fatto bene, ti farei per lo avvenire male". Tornato adunque a Firenze Gianmatteo richissimo, perché aveva avuto da il re meglio che cinquantamila ducati, pensava di godersi quelle richeze pacificamente, non credendo però che Roderigo pensassi di offenderlo. Ma questo suo pensiero fu subito turbato da una nuova che venne, come una figliuola di Lodovico settimo, re di Francia, era spiritata. La quale nuova alterò tutta la mente di Gianmatteo, pensando a l'auttorità di quel re e a le parole che gli aveva Roderigo dette. Non trovando adunque quel re a la sua figliuola rimedio, e intendendo la virtù di Gianmatteo, mandò prima a richiederlo semplicemente per uno suo cursore. Ma, allegando quello certe indisposizioni, fu forzato quel re a richiederne la Signoria. La quale forzò Gianmatteo a ubbidire. Andato pertanto costui tutto sconsolato a Parigi, mostrò prima a il re come egli era certa cosa che per lo adrietro aveva guarita qualche indemoniata, ma che non era per questo ch'egli sapessi o potessi guarire tutti, perché se ne trovavano di sì perfida natura che non temevano né minacce né incanti né alcuna religione; ma con tutto questo era per fare suo debito e, non gli riuscendo, ne domandava scusa e perdono. Al quale il re turbato disse che se non la guariva, che lo appenderebbe. Sentì per questo Gianmatteo dolore grande; pure, fatto buono cuore, fece venire la indemoniata; e, acostatosi all'orechio di quella, umilmente si raccomandò a Roderigo, ricordandogli il benificio fattogli e di quanta ingratitudine sarebbe essemplo, se lo abbandonassi in tanta necessità. Al quale Roderigo disse: "Do! villan traditore, sì che tu hai ardire di venirmi innanzi? Credi tu poterti vantare d'essere arichito per le mia mani? Io voglio mostrare a te e a ciascuno come io so dare e t"rre ogni cosa a mia posta; e innanzi che tu ti parta di qui, io ti farò impiccare in ogni modo". Donde che Gianmatteo, non veggiendo per allora rimedio, pensò di tentare la sua fortuna per un'altra via. E fatto andare via la spiritata, disse al re: "Sire, come io vi ho detto, e' sono di molti spiriti che sono sì maligni che con loro non si ha alcuno buono partito, e questo è uno di quegli. Pertanto io voglio fare una ultima sperienza; la quale se gioverà, la vostra Maestà e io areno la intenzione nostra; quando non giovi, io sarò nelle tua forze e arai di me quella compassione che merita la innocenzia mia. Farai pertanto fare in su la piaza di Nostra Dama un palco grande e capace di tutti i tuoi baroni e di tutto il crero di questa città; farai parare il palco di drappi di seta e d'oro; fabbricherai nel mezo di quello uno altare; e voglio che domenica mattina prossima tu con il clero, insieme con tutti i tuoi principi e baroni, con la reale pompa, con splendidi e richi abigliamenti, conveniate sopra quello, dove celebrata prima una solenne messa, farai venire la indemoniata. Voglio, oltr'a di questo, che da l'uno canto de la piaza sieno insieme venti persone almeno che abbino trombe, corni, tamburi, cornamuse, cembanelle, cemboli e d'ogn'altra qualità romori, i quali quando io alzerò uno cappello, dieno in quegli strumenti, e, sonando, ne venghino verso il palco: le quali cose, insieme con certi altri segreti rimedii, credo che faranno partire questo spirito". Fu sùbito da il re ordinato tutto; e, venuta la domenica mattina e ripieno il palco di personaggi e la piaza di populo, celebrata la messa, venne la spiritata condutta in sul palco per le mani di dua vescovi e molti signori. Quando Roderigo vide tanto popolo insieme e tanto apparato, rimase quasi che stupido, e fra sé disse: "Che cosa ha pensato di fare questo poltrone di questo villano? Crede egli sbigottirmi con questa pompa? non sa egli che io sono uso a vedere le pompe del cielo e le furie dello inferno? Io lo gastigherò in ogni modo". E, accostandosegli Gianmatteo e pregandolo che dovessi uscire, gli disse: "O, tu hai fatto il bel pensiero! Che credi tu fare con questi tuoi apparati? Credi tu fuggire per questo la potenza mia e l'ira del re? Villano ribaldo, io ti farò impiccare in ogni modo". E così ripregandolo quello, e quell'altro dicendogli villania, non parve a Gianmatteo di perdere più tempo. E fatto il cenno con il cappello, tutti quegli, che erano a romoreggiare diputati, dettono in quegli suoni, e con romori che andavono al cielo ne vennono verso il palco. Al quale romore alzò Roderigo gli orechi e, non sappiendo che cosa fussi e stando forte maravigliato, tutto stupido domandò Gianmatteo che cosa quella fussi. Al quale Gianmatteo tutto turbato disse: "Oimè, Roderigo mio! quella è mogliata che ti viene a ritrovare". Fu cosa maravigliosa a pensare quanta alterazione di mente recassi a Roderigo sentire ricordare il nome della moglie. La quale fu tanta che, non pensando s'egli era possibile o ragionevole se la fussi dessa, senza replicare altro, tutto spaventato, se ne fuggì lasciando la fanciulla libera, e volse più tosto tornarsene in inferno a rendere ragione delle sua azioni, che di nuovo con tanti fastidii, dispetti e periculi sottoporsi al giogo matrimoniale. E così Belfagor, tornato in inferno, fece fede de' mali che conduceva in una casa la moglie. E Gianmatteo, che ne seppe più che il diavolo, se ne ritornò tutto lieto a casa.

domenica 17 giugno 2012

Canto di Natale - Charles Dickens




(A Christmas Carol - 1843)

Lo spirito si insinuò tra le tombe e ne indicò una. Scrooge vi si avvicinò tremante. Il fantasma era esattamente quello di prima, ma ora temeva di scorgere un nuovo significato nel suo aspetto solenne. - Prima di avvicinarmi troppo alla pietra che mi indichi - disse Scrooge - rispondi a una domanda. Sono, queste, le ombre delle cose future, o sono le ombre delle cose che potrebbero essere?- Il fantasma continuò ad indicare la tomba presso la quale si trovava.
-Il cammino degli uomini prevede certe mete che, con la perseveranza, possono essere raggiunte - disse Scrooge. - Ma se questo cammino viene abbandonato, le mete saranno diverse. Può avvenire la stessa cosa con quanto mi hai mostrato? - Lo spirito stava immobile come sempre. Scrooge si avvicinò alla tomba e, seguendo la direzione indicata dal dito, lesse sulla pietra del sepolcro trasandato il suo nome: "Ebenezer Scrooge".



A CHRISTMAS CAROL by CHARLES DICKENS (illustrated by George Alfred Williams - New York, 1905)


Due mesi fa ho visitato la mostra Two Centuries After, a Palazzo Saraceni di Bologna, dedicata a Dickens nel bicentenario della nascita. Mi sono persa lungo la parete-libreria con le numerose edizioni delle sue opere, per finire poi letteralmente stregata dalle tavole con le illustrazioni di "A Christmas Carol", eseguite da un'infinità di artisti in quasi due secoli. Adesso, grazie a Paperone-Scrooge, Topolino-Cratchit e Paperino-Fred, tutti conoscono la storia dei tre spiriti del Natale passato, presente e futuro, e del miracolo ottenuto. Ma quanta denuncia sociale, dietro questa bella favola, quante accuse alle leggi inique dell'epoca, e quanta satira su nobiltà, chiesa e borghesia! Comunque, oggi 17 giugno con 33°, è stato bello tuffarsi in una  frenetica vigilia di Natale di 150 anni fa, e percorrere le strade ghiacciate di  Londra tra le carrozze e i passanti infreddoliti, tra le botteghe speziate e adornate di agrifoglio e le veloci servette  mandate a comprare le ultime mele o castagne....


Ringrazio Fausto Maraldi per quanto segue:


Tema Natale: da "UN CANTO DI NATALE" (Charles Dickens)

… Corse alla finestra, l'aprì e sporse fuori la testa; niente nebbia, niente bruma; una giornata chiara, luminosa, gioviale, stimolante, fredda; un freddo che frustava il sangue e metteva voglia di ballare; un sole d'oro, un cielo incantevole; aria fresca e dolce; campane gioiose. Oh, splendido, splendido! "Che giorno è oggi?", gridò Scrooge, verso la strada, a un ragazzo vestito a festa, che forse si era fermato proprio per guardare lui.

"Eh...?", rispose il ragazzo, con tutto lo stupore di cui era capace. "Che giorno è oggi, mio bel figliolo?", chiese Scrooge. "oggi...", replicò il ragazzo, "ma come? È Natale!" "È Natale", disse Scrooge a se stesso. "Non l'ho lasciato passare. Gli spiriti hanno fatto tutto in una notte sola. Possono fare qualunque cosa vogliono, naturalmente; naturalmente, possono fare qualunque cosa vogliono!" "Senti, ragazzino." "Sì", rispose il ragazzo. "Sei un ragazzino intelligente", disse Scrooge, "un ragazzino straordinario. Sai se hanno venduto quel tacchino che c'era appeso in mostra alla bottega? Non il tacchino piccolo, ma quello grosso." "Quale, quello grosso come me?", rispose il ragazzino. " - Che ragazzino delizioso! E un piacere parlare con lui. - Sì, figliolo mio." "C'è ancora appeso adesso", replicò il ragazzo. "C'è", disse Scrooge. "Va' a comperarlo." "È matto!", rispose il ragazzo. "No, no", disse Scrooge. "Va' a comperarlo, e di che lo portino qui, perché possa dare l'indirizzo dove deve essere mandato. Ritorna col commesso e ti darò uno scellino; ritorna con lui in meno di cinque minuti e ti darò mezza corona."

Il ragazzo partì come una palla di fucile; e chi avesse potuto far partire una palla con una velocità pari a metà della sua avrebbe dovuto avere la mano ben ferma sul grilletto. "Lo voglio mandare a Bob Cratchit", mormorò Scrooge, fregandosi le mani e scoppiando in una risata. "Non saprà chi è che glielo ha mandato. E grande il doppio di Tiny Tim. Nessuno ha mai fatto uno scherzo così ben riuscito come quello di mandare quel tacchino a Bob." La calligrafia con la quale scrisse l'indirizzo non era molto ferma; tuttavia, in un modo o nell'altro, lo scrisse, poi scese giù ad aprire la porta di strada per trovarsi pronto all'arrivo del commesso del pollaiolo. Mentre stava sulla porta, aspettandolo, gli cadde sott'occhio il batacchio. "A questo vorrò bene finché vivo", gridò Scrooge, accarezzandolo con le mani. "E dire che prima lo avevo appena guardato! Che espressione onesta c'è in quella faccia! E un batacchio magnifico. Ma ecco il tacchino. Hello, come state? Buon Natale!" Quello era un tacchino! E impossibile che quell'uccello fosse mai stato in piedi. Le zampe gli si sarebbero piegate sotto in un minuto, come bastoncini di ceralacca. "Ma è impossibile portarlo fino a Camden Town. Bisogna che prendiate una carrozza."

Il risolino col quale pronunciò queste parole, e quello col quale pagò il tacchino, e quello col quale pagò la carrozza, e quello col quale ricompensò il ragazzo, furono superati soltanto da quello col quale tornò a sedersi senza fiato sulla sua sedia, continuando a ridere finché non gli venne da piangere. Farsi la barba non fu cosa facile perché la mano continuava a tremargli molto; e farsi la barba è una cosa che richiede attenzione anche quando uno, facendosela, non si mette a ballare; pure, se si fosse tagliato la punta del naso, ci avrebbe messo sopra un pezzetto di cerotto e sarebbe stato perfettamente soddisfatto lo stesso.

Si vestì dei suoi abiti migliori, e finalmente uscì in strada. In questo momento la gente stava uscendo dalle case, così come egli l'aveva vista in compagnia dello Spettro del Natale Presente. E Scrooge, camminando con le mani dietro la schiena, guardava tutti quanti con un sorriso compiaciuto. Per dirla in breve, aveva l’aria così irresistibilmente piacevole che tre o quattro tipi di buon umore dissero "buon giorno, signore, buon Natale", e Scrooge disse spesso, più tardi, che di tutti i suoni gioiosi che egli aveva mai udito, quelli al suo orecchio erano stati i più gioiosi. Non aveva fatto molta strada, quando vide venirgli incontro quel signore imponente che il giorno prima era entrato nel suo ufficio dicendo: "La ditta Scrooge e Marley, credo". Sentì un colpo al cuore nel pensare all'occhiata che gli avrebbe dato il vecchio signore nel momento in cui si fossero incontrati; ma conosceva ormai quale strada gli si apriva diritta dinanzi e la prese. "Caro signore", disse Scrooge, affrettando il passo, e prendendo il vecchio per ambe le mani, "come state? Spero che abbiate avuto successo ieri. E stato molto gentile da parte vostra. Buon Natale, signore!" "Il signor Scrooge?" "Sì", disse Scrooge: "questo è il mio nome, e ho paura che non vi riesca molto gradito. Permettetemi di chiedervi scusa, e vogliate avere la bontà... " e qui Scrooge gli sussurrò qualcosa all'orecchio. "Signore Iddio!", gridò il signore, come se gli fosse stato mozzato il fiato. "Mio caro signor Scrooge, parlate sul serio?" "Per favore", disse Scrooge, "neanche un soldo di meno. In questa somma, vi assicuro, sono compresi molti arretrati. Volete farmi questo favore?" "Ma, caro signore", disse l'altro, stringendogli la mano, "non so che cosa dire di fronte a una simile munifi..." "Non dite niente, vi prego", replicò Scrooge. "Venite a trovarmi. Verrete a trovarmi?" "Ma certo", esclamò il vecchio signore, ed era chiaro che diceva sul serio. "Grazie", disse Scrooge, "vi sono molto obbligato. Vi ringrazio mille volte. Dio vi benedica."

Si recò in chiesa, passeggiò per le strade, guardò la gente che si affrettava in tutte le direzioni, accarezzò bambini sulla testa, rivolse la parola ai mendicanti, guardò dentro le cucine delle case e dentro le finestre, e trovò che tutto quanto gli procurava piacere. Non aveva mai sognato che una passeggiata, che una cosa qualunque potesse dargli tanta felicità. Nel pomeriggio si diresse verso la casa di suo nipote. Passò e ripassò davanti alla porta una dozzina di volte, prima di avere il coraggio di andar su e bussare. Finalmente si decise e lo fece. "E in casa il vostro padrone, mia cara?", disse Scrooge alla domestica. Ragazza graziosa, davvero! "Sì, signore." "Dov'è, amor mio?", disse Scrooge. "E in sala da pranzo, insieme con la signora. Vi accompagno di sopra, col vostro permesso." "Grazie, lui mi conosce", disse Scrooge, che aveva già la mano sulla maniglia della sala da pranzo. "Entrerò qui, mia cara." Fece girare la maniglia pian piano, e si affacciò alla porta semiaperta. Stavano guardando la tavola apparecchiata con un gran lusso, perché i padroni di casa, quando sono giovani, sono sempre nervosi su questo punto e vogliono esser sicuri che tutto sia in perfetto ordine. "Fred!", disse Scrooge. Signore! come trasalì la sua nipote acquisita! Per un attimo Scrooge si era scordato che c'era anche lei, seduta in un angolo, col panchettino sotto i piedi; altrimenti non lo avrebbe fatto di certo. "Ma come, benedetto Iddio", gridò Fred, "chi è mai?" "Sono io, tuo zio Scrooge. Son venuto a pranzo. Vuoi lasciarmi entrare, Fred?" Lasciarlo entrare! E un miracolo che, stringendogli la mano, non gli staccasse addirittura il braccio. Si sentì a casa propria in cinque minuti. Non c'era nulla che potesse essere più cordiale. Sua nipote aveva esattamente lo stesso aspetto, e così Topper quando arrivò, e così la sorellina paffutella quando arrivò e così tutti quanti quando arrivarono. Festa meravigliosa, giochi meravigliosi, armonia meravigliosa, felicità meravigliosa. Però la mattina seguente arrivò presto in ufficio. Oh, se ci arrivò presto! Solo poter arrivare per primo e sorprendere Bob Cratchit che arrivava in ritardo: era questa la cosa che più gli stava a cuore. E vi riuscì; sì, vi riuscì. L'orologio batté le nove - niente Bob; le nove e un quarto - niente Bob. Era ben diciotto minuti e mezzo in ritardo. Scrooge stava seduto con la porta spalancata, in modo da poterlo veder entrare nella cisterna. Si era levato il cappello e la sciarpa prima di aprire la porta, e si arrampicò in un baleno sul suo panchetto, correndo via con la penna come se tentasse di riacchiappare le nove. "Ehi là!", grugnì Scrooge, con la sua voce consueta, imitandola il più fedelmente possibile. "Che cosa significa arrivare a quest'ora?" "Vi chiedo mille scuse, signor Scrooge", disse Bob, "sono in ritardo." "Davvero?", ripeté Scrooge. "Sì, credo che siate in ritardo. Venite un momento qua, per favore!" "Una volta sola all'anno, signor Scrooge", supplicò Bob, venendo fuori dalla cisterna. "Non succederà più. Ieri siamo stati un po' allegri." "Ora vi dirò una cosa, amico mio", disse Scrooge. "Non intendo tollerare più a lungo questa razza di cose, e perciò", proseguì, balzando su dalla sedia e dando a Bob una tale spinta nel panciotto da farlo andare all'indietro barcollando dentro la cisterna, "e perciò mi propongo di aumentarvi lo stipendio." Bob tremò e si avvicinò un po' più al righello. Ebbe per un momento l'idea dì servirsene per stordire Scrooge, e poi tenerlo fermo e chiedere alla gente della corte aiuto e una camicia di forza. "Buon Natale, Bob!", disse Scrooge, con una serietà che non poteva essere fraintesa, battendogli sulle spalle. "Un Natale più buono, Bob, mio bravo figliolo, di quelli che vi ho dato per molti anni. Vi aumenterò lo stipendio e tenterò di assistere la vostra famiglia nelle sue difficoltà; e questo stesso pomeriggio discuteremo i vostri affari, seduti davanti a un bel punch natalizio fumante. Ravvivate il fuoco, Bob Cratchit, e comperatevi un'altra paletta per il carbone, prima di mettere il punto su un'altra i."

Scrooge fece più che mantenere la parola. Fece tutto quanto, e infinitamente di più: e per Tiny Tim, il quale non morì, fu un secondo padre. Divenne un amico, un padrone, un uomo così buono, come poteva mai averne conosciuto quella buona vecchia città, o qualunque altra buona vecchia città, borgata o villaggio di questo buon mondo. Alcuni ridevano, vedendo il suo cambiamento; ma egli era abbastanza saggio da sapere che su questo globo niente di buono è mai accaduto, di cui qualcuno non abbia riso al primo momento. E sapendo che in ogni modo la gente siffatta è cieca, pensò che non aveva nessuna importanza se strizzavano gli occhi in un sogghigno, come fanno gli ammalati di certe forme poco attraenti di malattie. Il suo cuore rideva e questo per lui era perfettamente sufficiente. Non ebbe più rapporti con gli spiriti; ma visse sempre, d'allora in poi, sulla base di una totale astinenza; e di lui si disse sempre che se c'era un uomo che sapeva osservare bene il Natale, quell'uomo era lui. Possa questo esser detto veramente di noi, di noi tutti! E cosi, come osservò Tiny Tim, che Dio ci benedica, tutti!

(Brano da Canto di Natale di Charles Dickens)





"I have endeavoured, in this Ghostly little book, to raise the Ghost of an Idea, which shall not put my readers  out of humour with themselves, with each other, with the season, or with me. May it haunt their houses pleasantly, and no one wish to lay it.
Their faithful Friend and Servant, C.D. December 1843."

In questo libriccino sullo spirito ho cercato di evocare lo spirito di un'idea che non metta i miei lettori di malumore con se stessi, tra di loro, con la stagione e con me. Possa esso aleggiare piacevolmente nelle loro case e che nessuno desideri scacciarlo.
Il loro fedele amico e servitore. Charles Dickens, dicembre 1843.



giovedì 14 giugno 2012

Il vento nei salici - Kenneth Grahame




(The Wind in the Willows - 1908)

-Ora si scosta e io lo perdo,- deplorò d'un tratto. -Oh, Talpa! Come è bello! Il cicalare giocondo, il tenue, netto, felice richiamo del flauto lontano! Io non ho sognato mai simile musica, e il richiamo in essa è anche più forte di quanto sia dolce la musica! Rema, Talpa, Rema! Chè la musica e il richiamo devono essere per noi.-

Questo brano è tratto dal capitolo VII, Il pifferaio alle soglie dell'alba,  nella versione originale "The Piper at the gates of Dawn" titolo che  i Pink Floyd di Syd Barrett hanno ripreso per il loro album d'esordio.
Da questo libro si potrebbero trarre mille spunti, perché rappresenta, con Il Piccolo Principe e La fattoria degli Animali una ideale trilogia di libri scritti per ragazzi,  ma più apprezzati dagli adulti.  Di cosa narra? Della vita, sia casalinga che avventurosa di alcuni animali, con caratteristiche molto simili a quelle umane. Parla della grandiosità della natura, ma anche di amicizia, solidarietà, difetti, pericoli, lealtà, e difficoltà da risolvere da soli. A parte la volta, proprio in questo capitolo, in cui appare il dio Pan, vero deus ex machina, che, col suono del suo flauto magico, aiuta Ratto e Talpa a ritrovare il cucciolo di Lontra scomparso, per poi svanire rimuovendo il ricordo dalle loro memorie. Mi piace ricordare che la traduzione, lievemente arcaica, è di Beppe Fenoglio.



Così... questo sarebbe un fiume!
- Questo è il fiume, - lo corresse Topo.
- E tu davvero ci vivi accanto? Che bella vita!
- Accanto, insieme, sopra, dentro. E' il mio mondo e non ne desidero altri.


Kenneth Grahame, 'Il vento nei salici'
Ill. di Inga Moore

martedì 12 giugno 2012

Il Piccolo Principe - Antoine de Saint-Exupéry




(Le Petit Prince - 1943)


"Buon giorno", disse il piccolo principe. 
"Buon giorno", disse il controllore. 
"Che cosa fai qui?" domandò il piccolo principe. 
"Smisto i viaggiatori a mazzi di mille", disse il controllore. "Spedisco i treni che li trasportano, a volte a destra, a volte a sinistra". 
E un rapido, illuminato, rombando come il tuono, fece tremare la cabina del controllore. 
"Hanno tutti fretta", disse il piccolo principe. "Che cosa cercano?" 
"Lo stesso macchinista lo ignora", disse il controllore.
Un secondo rapido illuminato sfrecciò nel senso opposto. 
"Ritornano di già?" domandò il piccolo principe. 
"Non sono gli stessi", disse il controllore. "E' uno scambio". 
"Non erano contenti là dove stavano?" 
" Non si è mai contenti dove si sta", disse il controllore. 
E rombò il tuono di un terzo rapido illuminato. 
"Inseguono i primi viaggiatori?", domandò il piccolo principe. 
"Non inseguono nulla", disse il controllore. "Dormono là dentro, o sbadigliano tutt'al più. Solamente i bambini schiacciano il naso contro i vetri". 
"Solo i bambini sanno quello che cercano", disse il piccolo principe. " Perdono tempo per una bambola di pezza, e lei diventa così importante che, se gli viene tolta, piangono..."
"Beati loro", disse il controllore.

Dei tanti incontri che il piccolo principe fa, ho scelto questo, meno noto, meno commentato. La bellezza, la spontaneità diretta del bambino fa arrossire noi, controllori, viaggiatori, esseri inutili che vanno di fretta, esseri ciechi che hanno perso il vero senso della vita. Agli occhi del bambino siamo assurdi, incapaci di dare importanza alle cose che contano. Ed era stata la volpe, un animale, ad avergli detto poco prima:   "Non si vede bene che col cuore; l'essenziale è invisibile agli occhi".

sabato 9 giugno 2012

Il Profeta - Gibran Kahlil Gibran



(The Prophet - 1923)


Ready am I to go, and my eagerness with sails full set awaits the wind.
Only another breath will I breathe in this still air, only another loving look cast backward,

Then I shall stand among you, a seafarer among seafarers.

And you, vast sea, sleepless mother,

Who alone are peace and freedom to the river and the stream,

Only another winding will this stream make, only another murmur in this glade,
And then shall I come to you, a boundless drop to a boundless ocean.


Sono pronto a salpare, e il mio desiderio in attesa è la vela spiegata sotto il vento.
Ancora una volta respirerò quest'aria calma, e indietro mi
volgerò con tanto amore.
E allora sarò tra voi, navigante in mezzo ai naviganti.
E tu materno e insonne, o vasto mare,
unica pace e libertà alla corrente e al fiume,
in questa piana la corrente avrà soltanto un'altra svolta e
un altro mormorio.
E allora io verrò a te, goccia infinita in sconfinato mare.

Ho scelto una parte del discorso iniziale,  "L'arrivo della nave" perché lo trovo di una bellezza sconvolgente, ma tutto il libro è estremamente piacevole. In questi discorsi alla folla, il profeta Almustafà affronta tutti i capitoli della vita, con parole spontanee come musica, appassionate e immortali. L'amicizia, l'amore, la morte, il lavoro, la religione.... e sempre e comunque ci insegna a vivere in armonia con noi stessi, senza dimenticare mai  la doppia natura di tutte le cose; senza dimenticare mai che ogni elemento positivo è indissolubilmente connesso al proprio opposto negativo, che ogni  gioia è allo stesso tempo dolore. Gibran è libanese-americano, la filosofia  Yin Yang cinese, ma io non ci vedo differenze. 

 



Gibran Kahlil Gibran (Libano 1883-1931)

domenica 3 giugno 2012

La linea d'ombra - Joseph Conrad




(The Shadow Line - 1917)

Si va avanti ritrovando i solchi lasciati dai nostri predecessori, eccitati, divertiti, facendo tutt'un fascio di buona e cattiva sorte - zuccherini e batoste, si può dire - il pittoresco lascito assegnato a tutti, che tante cose riserba a chi ne avrà i meriti, o forse a chi avrà fortuna. Già. Si va avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d'ombra, ad avvertirci che bisogna dare addio anche al paese della gioventù.

Tutti ci siamo sentiti speciali, invincibili e diversi dagli altri, eravamo giovani, spensierati e con la certezza che non saremmo mai diventati come i nostri genitori, come gli adulti, così noiosamente seri e uguali tra di loro. Tutti abbiamo preso allegramente decisioni avventate, sconsiderate, per il solo gusto di affermare la libertà di essere come ci pareva. Eppure, come succede al capitano senza nome di questo romanzo, viene un giorno in cui si prende una decisione. Una qualunque, ma proprio quella che ci cambierà la vita gettandoci in una serie di prove, imprevisti, conflitti, reazioni. Una decisione che ci costringerà ad attraversare la linea che separa la spensierata gioventù dalla vita adulta. Una linea alla quale tutti tentavamo di sfuggire: la nostra linea d'ombra.


Jozef Teodor Konrad Korzeniowski  (UK 1857-1924, polacco di nascita)